La guerra e la violenza di chicchessia svuota l’anima dei bambini. Che ne è dunque dell’anima dei bambini siriani, iracheni, yemeniti, dei loro occhi “terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione”?
«Lasciate che i bambini vengano a me
e non glielo impedite,
perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio» Mc 10,14.
Vorrei per un momento pensare a tutti quei bambini vittime delle numerose guerre combattute in Siria, Iraq, Yemen, Somalia, Libia, e ovunque. Migliaia di vite indifese colpite a morte dalla pretesa dei grandi di comandare il mondo. Vittime innocenti di operazioni militari che ignorano, persi nei tanti campi di battaglia di questo mondo. Ma vorrei anche pensare a quei bambini che, pur lontani dalle bombe e dalle guerre, non sono in pace nemmeno tra le mura domestiche e assistono impotenti agli ormai quotidiani femminicidi. Che ne è di questi bambini, della loro vita, del loro destino?
“Troppo spesso – ha detto papa Francesco – sui bambini ricadono gli effetti di vite logorate da un lavoro precario e malpagato, (…) pagano anche il prezzo di unioni immature e di separazioni irresponsabili: (…). Spesso assorbono violenza che non sono in grado di “smaltire”, e sotto gli occhi dei grandi sono costretti ad assuefarsi al degrado”.[1] Provo ad esprimere questa drammatica posta in gioco con le parole di François Mauriac. Nell’introduzione al libro di Elie Wiesel, La notte, si chiede e chiede a tutti noi: “Abbiamo mai pensato a questa conseguenza (…) la peggiore di tutte per noi che possediamo la fede: la morte di Dio in quell’anima di bambino, che scopre tutto a un tratto il male assoluto?”.[2]
La morte di Dio nell’anima di un bambino. Solo un credente può porsi un simile problema. È infatti inutile per la ragione strumentale che riduce l’universo a ciò che è sperimentabile; è superfluo per le statistiche sociologiche e scomodo per le logiche politiche. Eppure la questione mi sembra di capitale importanza altrimenti Gesù non ci avrebbe ammonito: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare” (Mc 9,42). Quando Primo Levi, internato ad Auschwitz, si imbatte in Hurbinek, un bambino come tanti nel campo, così lo descrive: “Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz”. Ridotto a cosa dall’incuria dei grandi, “era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena”.[3]
La guerra e la violenza di chicchessia svuota l’anima dei bambini. Quanti “figli di Auschwitz” ci sono ovunque, come “Hurbinek, – continua P. Levi – che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek (…) il cui minuscolo avanbraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek che morì ai primi giorni di marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole”.
Sono grato a Primo Levi (quest’anno ricorre il trentesimo dal suicidio) perché ha passato la vita a scrivere contro la barbarie della storia. Ha dato a Hurbinek e a milioni di esseri umani la possibilità di parlare prima che l’oblio ne cancellasse il ricordo: morti da soli, morti invano. Che ne è dunque dell’anima dei bambini siriani, iracheni, yemeniti, dei loro occhi “terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione”? Che cos’è l’anima di un bambino? Quanto è grande? C’è forse un età dopo la quale è più conveniente parlare di Dio oppure Dio è quell’anima? Sembrano ancora una volta interrogativi puerili, eppure non aspetterei la maggiore età dei nostri figli. Parlerei loro di Dio prima, molto prima. Non come un muro, un peso, ma come la condizione per vivere in un universo più ampio e dare alla ragione più spazio per muoversi, in terra come in cielo. Sono per questo dalla parte della scrittrice americana F. O’Connor quando scrive che “la differenza principale tra uno scrittore cristiano e uno scrittore meramente naturalista è che lo scrittore cristiano vive in un universo più ampio. È convinto che il mondo naturale contenga il soprannaturale”.[4] Questo fa la fede: carica la vita di possibilità.
Tutti hanno avuto dei figli, tutti hanno il ricordo della loro infanzia, dei primi passi, dei primi dentini delle prime domande, delle prime notti insonni. Anch’io, pur non avendo figli miei ho dei ricordi. Quello di mia nipote Chiara, per esempio, che pochi mesi dopo aver perso i nonni ai quali era molto legata, per la prima volta ha avuto l’avventura di volare a Bruxelles. Durante il volo ha chiesto alla mamma se volando avrebbe potuto finalmente rivedere i nonni in cielo. Fortunatamente, prima che mia sorella potesse organizzarsi per la risposta, (le domande dei bambini sempre spiazzano gli adulti), dalla fila dietro la voce del fratellino Riccardo, di qualche anno più grande, con l’intento di rimproverarla, precisava che “Easy-jet non vola così in alto!”. Quasi dando per scontato che i nonni non si sarebbero visti perché sono in un cielo più alto dove le nuvole sono più grandi e ospitali e dove non ci si arriva con l’aereo ma con qualcosa d’altro. Con Dio nell’anima.
Com’è ampio il mondo interiore di un bambino! Per questo C. Péguy fa dire a Dio, che non esiste nulla di più bello al mondo di un bimbo “che si addormenti nel dir la preghiera / sotto l’ala dell’angelo custode / e sorride da solo scivolando nel sonno”.[5] Eppure, qui in Cambogia, non posso non pensare a tutte quelle bambine che la sera non scivolano nel sonno perché lavorano, “vendute ai nostri piaceri, nella loro tristezza che sorride vittima di un rossetto ingrato”.[6] Che cosa dobbiamo fare dunque per salvare Dio nell’anima dei nostri figli?
Il primo passo è quello di essere noi stessi cercatori di Dio. Papà e mamme, il cui desiderio non è ripiegato sulle cose, ma rimane aperto e diventa preghiera. Un simile desiderio – scrive M. Recalcati – “trova la sua immagine in un corpo genuflesso e immerso nella preghiera”.[7] Alludo a papà e mamme che sanno ancora inginocchiarsi sotto lo sguardo dei loro figli e di Dio. Perché se si abbassano in quel modo, certamente i loro figli non potranno che alzare lo sguardo e chiedere cosa c’è oltre le nuvole. Oltre le croci di ogni giorno.
Un secondo passo è quello di essere leali con se stessi, con tutti. Non raccontare menzogne per nessuna ragione al mondo. Accettare di perdere la faccia, di essere vulnerabili, ma veri. Vale la pena imbattersi nella storia di Claude Romand che ha finto per quindici anni di essere ciò che non era, ed è stato costretto dalle sue menzogne ad uccidere genitori, moglie e figli. “Il lato sociale era falso, ma il lato affettivo era vero, dice Romand”.[8] Che stesse mentendo anche a se stesso? Questo passo è il più faticoso perché “il più difficile nella vita è vivere e non mentire…”, dice Stepàn Trofìmovic Verchovenskij ne I demoni di Fedor Dostoevskij.
Infine un terzo passo lo attingo da film, Il figlio di Saul, del regista Lásló Nemes. Racconta di Saul che ad Auschwitz era addetto a rimuovere i cadaveri dalle camere a gas. Un giorno crede di riconoscere il cadavere di suo figlio e di nascosto lo sottrae alle SS per poter dargli una degna sepoltura alla presenza di un rabbino. Contrappone così alla violenza del campo la sacralità di un gesto religioso. Là dove i cadaveri venivano barbaramente bruciati come scarti da cancellare, Saul cerca invece di compiere un ultimo gesto di pietà. Non si capirà mai se davvero quel ragazzo morto è suo figlio, ma poco importa. Perché i figli di Auschwitz sono tutti suoi figli. Così i bambini siriani, yemeniti, iracheni, cambogiani, … allo stesso modo sono tutti nostri figli.
“Sinite parvulos venire ad me …”. Ciao,
- Alberto
[1] PAPA FRANCESCO, Udienza Generale, Mercoledì, 8 aprile 2015.
[2] F. MAURIAC, Introduzione a E. WIESEL, La notte, Firenze 2000.
[3] P. LEVI, La tregua, edizione e-book.
[4] F. O’CONNOR, Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere, Milano 2011, 77.
[5] C. PÉGUY, I misteri, Milano 1997, 390.
[6] R. DAPUNT, La terra più del paradiso, Torino 2008, 34.
[7] M. RECALCATI, Ritratti del desiderio, Milano 2012, 113.
[8] E. CARRÈRE, L’avversario, Milano 2013, 71.