Quando a fuggire sono i minorenni. Da soli. Il tema delle migrazioni raccontato dalla prospettiva dei più piccoli è al centro del nuovo film dei fratelli Dardenne, in uscita in Italia il 24 novembre. Racconta la storia di un bambino e di un’adolescente africani che si fingono fratelli per affrontare insieme le difficoltà
Ogni carico umano di migranti che sbarca sulle nostre coste o varca le nostre frontiere spesso include bambini e ragazzini soli, i “minori stranieri non accompagnati”. Il loro dolore, il senso di solitudine lontano dai loro cari, la sofferenza del viaggio e lo sgomento di fronte a un mondo nuovo possiamo solo immaginarceli.
Jean-Pierre e Luc Dardenne, nella vita fratelli e compagni di lavoro come registi e sceneggiatori, sono noti per i loro film che raccontano le storie di un’umanità marginale, che aspira alla normalità ma che non riesce a uscire dalla trappola della povertà e del lavoro sottopagato. E dall’emarginazione, si sa, è facile sconfinare nella delinquenza. Stavolta, con “Tori e Lokita”, vincitore del Premio Speciale all’ultimo Festival di Cannes e al cinema 24 novembre prossimo, i Dardenne focalizzano l’attenzione sui giovani migranti.
Tori è un bambino di 7-8 anni, Lokita è un’adolescente. Sono fuggiti dal Benin, hanno solcato il Mediterraneo sbarcando in Sicilia e da lì sono riusciti ad arrivare in Belgio. Al centro di accoglienza, hanno raccontato una mezza verità. Tori è un piccolo orfano, abbandonato dalla famiglia perché ritenuto stregone. Ai colloqui con gli assistenti sociali per ottenere il permesso di soggiorno, la ragazza sostiene che sono fratelli. Racconta di averlo portato via dall’orfanotrofio e di essere partiti insieme. Ma non è così: i due minori, come poi si scopre, si sono conosciuti durante il viaggio e nelle difficoltà è nata un’amicizia più forte di un legame di sangue.
Lokita sogna di poter risiedere legalmente in Belgio per fare la domestica, pagandosi una casa dove vivere con il piccolo Tori. Ma come accade a tanti migranti, il suo destino è segnato. Per raggiungere il Belgio i due ragazzini hanno, infatti, dovuto ricorrere ai passeur, trafficanti di esseri umani, che pretendono di essere pagati. In più, la madre di Lokita continua a chiamare la figlia, chiedendo soldi per pagare la scuola ai fratelli rimasti in patria. Trovare un lavoro onesto e regolare è molto difficile persino per un minorenne europeo. E lo è ancora di più se gli aspiranti lavoratori sono un bambino in età da scuola elementare e una ragazzina, stranieri e senza documenti. Tori e Lokita fanno la conoscenza un pizzaiolo, Betim, che affida loro per qualche consegna. Il cuoco, però, è coinvolto anche nello spaccio di droga e usa i due ragazzini per vendere la roba ai suoi clienti. Ogni giro assicura loro qualche banconota da 50 euro, una mancia cospicua e fondamentale per ripagare i passeur.
Tutto precipita quando Lokita non riesce ad avere i documenti per regolarizzare la sua posizione. Per procurarseli, dovrà ricorrere a un falsario e contrarre un nuovo debito, da pagare attraverso un lavoro assolutamente illegale. Non vi diremo qui cosa succede, ma questo non è un film con un finale da favola. Nello stile dei Dardenne, la narrazione cinematografica documenta la vita, quella vera. E la realtà non fa sconti, soprattutto ai più disagiati.
Il film “Tori e Lokita” evidenzia diversi temi importanti. Al centro, c’è l’amicizia speciale che lega i due protagonisti. Aver condiviso il difficile cammino del viaggio e dell’arrivo in Europa li ha resi davvero fratelli. Ciascuno dei due è diventato il surrogato della famiglia per l’altro, per il quale è disposto a mettere a rischio la propria vita. Le comuni origini e il valore del canto che è identità condivisa, ma anche medicina per l’anima cementa la loro relazione. L’età non condiziona il loro rapporto: a volte è Lokita, più grande anche fisicamente, a proteggere Tori, ma il bambino è sempre pronto a intervenire a difesa della ragazza, con tutte le sue forze. È un ragazzino sveglio, come i bambini sanno essere quando la vita li mette alla prova.
Come ragazza adolescente, Lokita è esposta a maggiori rischi rispetto a Tori. A tratti, sembra una bambina calata in un corpo di donna, di cui non è ancora del tutto consapevole. La sua posizione di debitrice la espone alle pretese sessuali di Betim, che lei fatica a gestire. È chiaramente una ragazzina ancora bisognosa di un genitore al suo fianco. Della famiglia di Lokita, non sappiamo nulla: si intuisce che i parenti le avranno pagato il viaggio, come spesso succede, perché poi mandasse denaro alla famiglia. E dal dialogo con la madre, i Dardenne lasciano immaginare quanto solitamente accade: il migrante, adulto o minore, giunge in Europa ma non trova un meraviglioso lavoro ad attenderlo. Anzi, vive di espedienti. Tuttavia lascia credere ai familiari che tutto vada bene, come fa Lokita, che si sente responsabile per la sorte dei fratelli e quindi in colpa per il denaro che non riesce a trovare.
Se, da una parte, c’è la scelta sbagliata di una famiglia che manda allo sbaraglio una ragazzina indifesa, dall’altra c’è una società – la nostra – che rimane indifferente innanzi a questi minori. Gli assistenti sociali che conducono l’interrogatorio sembrano guidati unicamente dall’obbligo di fare il proprio dovere: sono pagati per scoprire la verità e che cosa ne sarà della vita di Lokita non ha alcuna importanza. Non contano i suoi sentimenti, né la sua sofferenza. Fuori dalla porta degli uffici pubblici e dei centri d’accoglienza, loschi personaggi sono pronti ad approfittarsi dei migranti, soprattutto se minorenni. Ma è più comodo far finta di non saperlo.
«Il nostro più grande desiderio – hanno dichiarato i due registi – è che alla fine del film il pubblico, che avrà provato una profonda empatia nei confronti di questi due giovani esiliati e della loro amicizia, senta anche un senso di rivolta contro l’ingiustizia che regna nella nostra società».