In uscita il 20 ottobre e candidato agli Oscar, il film “Utama” racconta la vita di una coppia quechua in Bolivia, messa a dura prova dalla siccità e costretta a trasferirsi, perdendo tradizioni e valori millenari
Il cambiamento climatico è globale. Nessun luogo del pianeta è risparmiato, neppure le lande dove la presenza umana e il suo impatto sull’ambiente sono minime. È la storia che ci racconta il film boliviano Utama – Le terre dimenticate di Alejandro Loayza Grisi, vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival di quest’anno, che rappresenterà la Bolivia alla prossima edizione degli Oscar. Dal 20 ottobre prossimo, si potrà vedere anche nei cinema italiani.
Utama in lingua quechua significa “la nostra casa”. Quella di Sisa e Virginio, un’anziana coppia di questa etnia, si trova negli altipiani, a 4.200 metri di altitudine. È una casupola di pietre e di fango, con pochi comfort: due letti, un tavolo con le sedie, una stufa. Niente elettricità e acqua corrente. Per loro, tuttavia, è il paradiso. Seguendo una tradizionale divisione dei compiti, lui porta ogni mattina il gregge di lama al pascolo, lei procura l’acqua, si occupa dell’orto e cucina. A tavola, fagioli, qualche patata e carne solo quando uno dei lama muore. Alla sera, insieme filano la lana dei loro animali. È una vita semplice e antica, ma fin dalle prime scene intuiamo che qualcosa non va come dovrebbe. Non piove da troppo tempo, la terra si spacca per la calura ed è flagellata dal vento, l’orto di Sisa non produce più nulla. E la donna ogni giorno è costretta a spingersi più lontano per cercare l’acqua: il pozzo del paese più vicino è a secco. I lama di Virginio sono sempre più magri, per la scarsità di erbe da brucare. Nel villaggio sono rimasti solo i vecchi: le giovani generazioni se ne sono andate in città, alla ricerca di una vita migliore. E ora la siccità sta spingendo tutti a lasciare le case, per raggiungere i figli.
Il cambiamento non è indolore: il burbero Virginio è adirato con il figlio, che ha lasciato l’altipiano per cambiare stile di vita. E quando vede arrivare il nipote Clever lo accoglie in malo modo. Il giovane, che si fermerà per alcuni giorni ad aiutare i nonni, ha l’obiettivo di convincerli a venire in città. Sisa non sembra essere del tutto ostile all’idea, ma Virginio è irremovibile. È convinto che la pioggia tornerà, e per propiziarla insieme agli altri paesani sale in cima alla montagna sacra per offrire, secondo le antiche tradizioni, un animale alla divinità. Ma è tutto inutile. E nel frattempo, la tosse che affligge l’anziano pastore peggiora. Per ricevere cure adeguate, avrebbe bisogno di un ospedale, che non esiste in quella landa sperduta. Testardo e orgoglioso, Virginio nasconde persino alla moglie la sua malattia. Sente che la morte si avvicina, e vuole che sia come quella del condor, animale sacro nella cultura andina, che torna sulla montagna da cui è originario per morire, chiudendo un ciclo di vita e aprendone così uno nuovo.
Il film merita di essere visto solo per la bellezza dei paesaggi andini che presenta. Ha anche il pregio di aprire le porte sul mondo tradizionale quechua, così poco conosciuto, e sul loro millenario rapporto con una natura poco accogliente, con la quale hanno imparato a convivere. È un equilibrio fragilissimo, che oggi sta saltando per via della stagione delle piogge sempre più ridotta e dello scioglimento dei ghiacci sulle vette. E non è certo colpa di questi popoli, che hanno uno stile di vita frugale e rispettoso dell’ambiente. Come avviene in altre parti del globo, pagano il prezzo dei danni provocati al pianeta dalla popolazione delle città che vive in modo differente, inquinante e ad alto impatto sulla natura.
È magnifico ascoltare gli scarni dialoghi fra Virginio e Sisa in lingua quechua, passando allo spagnolo solo per comunicare con il nipote. L’anziana coppia, nella tranquillità dell’altipiano, non sente il bisogno di riempire ogni attimo di silenzio con un fiume di parole: sa comunicare con uno sguardo, e trasmettere l’affetto sfiorando una mano. I loro volti, solcati dalle rughe, esprimono una bellezza autentica, vera. Forse perché i due protagonisti non sono attori professionisti e sono una coppia anche nella vita. Il regista Loayza Grisi li ha incontrati per caso sugli altipiani, faticando non poco per convincerli a far parte del film. Alla fine, il risultato è perfetto, probabilmente perché l’esistenza che mettono in scena non è così diversa dalla loro.
Utama ha anche lo scopo di mostrare la varietà delle culture boliviane e il rischio che incombe con la globalizzazione. «In Bolivia è molto difficile distinguere dove inizia una cultura e dove finisce l’altra – ha dichiarato Alejandro Loayza Grisi – Questa è la bellezza del mio Paese, un amalgama di culture che interagiscono e vivono pacificamente nonostante le loro differenze. Ma più ti allontani dalle grandi città e vai verso la campagna, più ti rendi conto di ciò che sta accadendo in tutta l’America Latina, e persino a livello globale: che i modi di vivere e le convinzioni delle campagne si stanno erodendo a ritmi preoccupanti. Questo è ciò che fa la globalizzazione. Ci costringe a essere attenti per evitare che ciò accada, perché altrimenti perderemo ricchezze culturali immateriali. Penso che stia succedendo in tutto il mondo e se non vogliamo che queste culture siano reperti museali o documenti storici, dobbiamo abbracciarle attivamente, sostenerle e preservarle».