Le Missionarie dell’Immacolata compiono ottant’anni. Così stanno rivedendo i loro obiettivi, alla luce di una società che cambia
L’Italia sarà a tutti gli effetti un Paese di missione. Così come l’India, la Guinea Bissau, il Brasile. È una delle scelte che le Missionarie dell’Immacolata (MdI) hanno posto come punto di svolta per il loro cammino futuro. Senza rinunciare per nulla alla missione ad gentes , ovvero all’annuncio del Vangelo a chi non lo conosce. L’8 dicembre le “suore del Pime” celebrano gli 80 anni dalla loro fondazione e, nell’ultimo decennio in particolare, si sono interrogate in profondità sul loro carisma, confrontandosi sia con la società e i nuovi bisogni che da essa provengono, che con i cambiamenti interni all’istituto.
Nate a Milano nel 1936, oggi sono 915, sparse in 10 Paesi in tutti e cinque i continenti. Sono per la maggior parte indiane (650), così come indiana è la superiora generale, suor Rosilla Velamparambil, 68 anni, rieletta per il secondo mandato nel 2012. Le italiane sono 143, le altre provengono da Bangladesh, Brasile, Cina, Camerun, Guinea Bissau, Papua Nuova Guinea.
Da pochi mesi hanno aperto una presenza in Sicilia, a Modica, nell’ambito di un progetto della Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi), accogliendo la sfida posta dalle migrazioni. L’obiettivo è mettere le competenze acquisite in missione, e in particolare la conoscenza di altre lingue e culture, a servizio sia dei migranti che della società siciliana alle prese con l’accoglienza. Una missionaria dell’Immacolata, insieme a tre missionari di altri istituti religiosi, è già al lavoro. Del grande valore di questa presenza, seppur piccola, è profondamente convinta suor Rosilla, che insieme alle proprie consorelle vede questa scelta come una delle direzioni verso cui camminare.
C’è l’abitudine a vedere i missionari partire dall’Italia per andare lontano, in altri continenti. Perché l’Italia è invece per voi un Paese di missione?
«Nel nostro ultimo capitolo generale del 2012, abbiamo preso la decisione di aprire le destinazioni missionarie anche all’Italia, prendendo in considerazione i cambiamenti sociali e religiosi che hanno riguardato questo Paese così come il resto dell’Europa. Da una parte, assistiamo all’aumento della secolarizzazione, con l’invito da parte della Chiesa a una nuova evangelizzazione; dall’altra siamo testimoni di un cambiamento profondo che riguarda l’Europa, con l’immigrazione di masse di persone da altri continenti. Molte di loro provengono da Paesi dove siamo presenti come missionarie. Sentiamo di dover annunciare la Buona novella anche a queste persone, qui in Italia. A partire da questa prospettiva abbiamo già destinato quattro missionarie alla “Provincia Italia”: una sorella bengalese e tre indiane; due stanno già lavorando, una sta studiando la lingua e una partirà fra poco con destinazione Italia».
Quali sono gli obiettivi della missione in Italia?
«Abbiamo dato avvio ad alcune attività con i migranti, mentre prosegue l’impegno nell’animazione missionaria nella Chiesa italiana, che continua ad essere una delle attività principali del nostro istituto. Uno dei nostri obiettivi è condividere il carisma che abbiamo ricevuto con le Chiese locali nelle quali siamo inserite, aiutandole ad essere fedeli a quello che dovrebbero essere per natura, ovvero missionarie».
Essere la madre generale di un istituto nato in Italia rappresenta una sfida in più per lei?
«Direi che la chiamata ad essere madre generale di un istituto che oggi ha membri di otto nazionalità diverse ed è presente in dieci Paesi è una sfida principalmente per la diversità e la varietà delle lingue e delle culture. Non sono, del resto, la prima non italiana ad avere questa responsabilità nel nostro istituto: anche la superiora generale che mi ha preceduta era indiana. Considero tutto ciò molto positivo, perché manifesta la capacità del capitolo generale di farsi guidare dallo Spirito di Dio andando oltre i vincoli della nazionalità di provenienza, e un segno di unità dell’istituto. È stato anche un gesto profetico che esprime il nostro desiderio di essere una famiglia internazionale, che non si concretizza solo nell’essere presenti in diversi Paesi o essere di più nazionalità, ma nell’essere “casa” per tutte. Negli ultimi anni ci siamo lasciate ispirare dagli orientamenti del nostro capitolo generale a vivere in una dimensione interculturale, e durante la nostra ultima assemblea abbiamo potuto notare sia i progressi fatti in questa direzione sia le aree dove abbiamo bisogno ancora di crescere».
Quali sono ora le vostre priorità?
«In questi anni ci siamo focalizzate sulla riscoperta del nostro carisma missionario, cercando di viverlo in tre dimensioni: “ad gentes”, “ad extra” e “ad vitam”, ovvero annunciando Gesù a chi non lo conosce, partendo per altri Paesi e per tutta la vita. Vogliamo seminare il seme del Vangelo nel mondo, seguendo Gesù, che è il seminatore ma anche il seme, che cade nel terreno e deve morire per dare frutto. È in questa logica di mistero pasquale che siamo chiamate a vivere e a svolgere il nostro servizio. Come missionarie, siamo mandate a coloro che non conoscono ancora Gesù, ai quali questa parola di salvezza non è stata ancora proclamata. Per questa ragione, dobbiamo riconsiderare il modo con cui portiamo avanti le nostre iniziative, e ridimensionare quelle che non sono pienamente in linea con questo carisma, lasciando i luoghi dove la nostra presenza non è più richiesta per raggiungere coloro che ne necessitano, in particolare le periferie, come il Papa chiede insistentemente».
C’è una frase del Vangelo che le è particolarmente cara?
«”Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. Egli però disse loro: ‘È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato’” (Lc 4, 42-43). Questo brano racchiude gli aspetti centrali del nostro carisma in quanto istituto esclusivamente missionario: l’apertura ai bisogni più urgenti dell’evangelizzazione, il distacco che ogni partenza comporta e la capacità di lasciare le posizioni precedentemente acquisite per essere là dove lo Spirito chiama».
Quali sono le vostre sfide per il futuro?
«Stiamo pensando a presenze più piccole, più flessibili e interculturali, inserite fra la gente. Affrontare la sfida di costruire una comunità davvero interculturale è fondamentale per la credibilità di quello che proclamiamo. Le nostre parole saranno credibili solo se saremo capaci di vivere la comunione fra noi, dando testimonianza con la nostra vita di quello che proclamiamo. Tutto ciò è ancora più importante in un mondo dove la paura delle differenze sta portando alla costruzione di barriere, al rifiuto di aiutare chi è rifugiato, a sentimenti xenofobi. Siamo anche chiamate a essere presenti attraverso comunità che siano più vicine alla vita delle persone. Non è più tempo di grandi istituzioni, che spesso assorbono tutte le nostre energie, lasciando poco spazio per entrare in contatto con le persone e i loro bisogni reali. Dobbiamo trovare l’equilibrio in questo processo e anche il coraggio di lasciare l’assetto acquisito per andare altrove, seguendo Gesù sui sentieri del mondo»