Gerusalemme dimenticata

Gerusalemme dimenticata

Il suo conflitto è sempre meno al centro delle agende di politica internazionale, l’Intifada non fa più notizia. E ora persino i pellegrini dall’Italia diminuiscono. Che cosa succede alla Città Santa?

 

«Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo». È perentorio il Salmo 137 nel descrivere quanto Gerusalemme sia un riferimento irrinunciabile nella vita del credente. Ma oggi è ancora così?

Stiamo entrando nel tempo natalizio, momento dell’anno in cui lo sguardo del cristiano non può non posarsi verso Betlemme, la periferia dell’Impero dove il Verbo si fece carne. Ma tra i conflitti in Siria e in Iraq, le tragedie del mare nel Mediterraneo, il nuovo antagonismo tra Russia e Stati Uniti, che ne è oggi della Terra Santa?

Per anni gli esperti di geopolitica hanno ripetuto che la soluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi sarebbe stata la chiave per la costruzione della pace in Medio Oriente. Le diplomazie e il mondo dell’informazione – a partire dalla guerra dei Sei giorni del 1967, ormai quasi cinquant’anni fa – hanno investito tante energie e risorse con l’obiettivo di risolvere il rompicapo di Gerusalemme. Ma i risultati sono stati scarsi. E così, su questo angolo del mondo, da alcuni anni sembra essere calato il vento della disillusione: del conflitto che insanguina Israele e Palestina abbiamo tutti improvvisamente poca voglia di parlare.

Ormai Gerusalemme fatica a far notizia. Lo dimostra la scarsa copertura mediatica che sta registrando la stessa “Intifada dei coltelli”, la nuova ondata di violenze iniziata alla fine del settembre 2015 in Terra Santa. Complice il tipo di eventi sanguinosi – uno stillicidio di attacchi all’arma bianca anziché grossi attentati provocati da uomini-bomba – pochi si sono accorti delle proporzioni del fenomeno; eppure in un anno si sono contate ben 274 vittime (235 palestinesi, 34 israeliani e 5 stranieri). Ma ancora più dei numeri, a colpire dovrebbe essere la natura di una rivolta di stampo sostanzialmente nichilista: la maggior parte delle vittime sono ragazzi palestinesi che si gettano con un coltello o anche solo un cacciavite contro il primo israeliano che incontrano, finendo il più delle volte uccisi dalle forze di sicurezza. Emblematico il caso della ragazzina che qualche settimana fa, al valico di Qalqilya, è andata dritta contro i soldati del check-point, nonostante non avesse con sé né un’arma né un coltello. Una volta ferita a un ginocchio ha spiegato: «Volevo solo morire».

Oggi c’è una generazione che si sente dimenticata da tutti a Ramallah e a Betlemme. Gli stessi movimenti politici palestinesi, usciti fortemente indeboliti dalle rivoluzioni in Medio Oriente, sono avvertiti come lontani. Pedine di un gioco che ormai ha priorità diverse: lo scontro tra sunniti e sciiti per il controllo di Aleppo o Mosul, ben più che Gerusalemme. Mentre dall’altra parte della barricata il nazionalismo ebraico vive il suo apogeo senza pensare seriamente a che cosa potrà essere questa terra tra dieci o vent’anni. In un contesto del genere ci si accontenta delle battaglie di bandiera, come quella attorno alla risoluzione dell’Unesco sulla questione del Monte del Tempio – Spianata delle Moschee. Un dibattito ridotto a uno scontro sui nomi dei Luoghi Santi; senza alcuna riflessione seria sulle regole da adottare per garantire il rispetto dell’identità di ciascuno in quella città plurale che è la Gerusalemme lasciata in eredità dalla storia.

Lo scorso 30 settembre, poi, a Gerusalemme sono arrivati i “grandi” della terra per il funerale dell’ex presidente Shimon Peres. Un evento in qualche modo simbolico: oggi a condurre capi di Stato e di governo nella Città Santa non sono iniziative per progettare un futuro di pace, ma solo esequie solenni. E il disinteresse della politica non fa altro che alimentare la convinzione che il conflitto a Gerusalemme sia un dato inevitabile. Favorendo la crescita degli opposti estremismi, nel più classico dei circoli viziosi.

C’è un altro fenomeno, però, che comincia a farsi sentire e che ha a che fare anche con lo sguardo dei credenti: calano drasticamente i pellegrinaggi cristiani in Terra Santa, soprattutto dall’Italia. I 63.400 visti turistici di ingresso in Israele rilasciati a cittadini italiani nei primi nove mesi del 2016 sono il dato più basso da una decina d’anni a questa parte. È vero, il Giubileo della Misericordia non aveva Gerusalemme al proprio centro; ma questo fatto da solo non basta a spiegare un’inversione brusca di tendenza. Già l’anno scorso il calo dei pellegrini era stato stimato in circa il 25%; e i numeri di oggi fanno pensare che a dicembre il saldo sarà ulteriormente negativo.

Il clima internazionale di paura tende ad allontanarci anche da Gerusalemme. Ed è un grosso peccato. Non solo per l’importanza che la presenza dei pellegrini riveste nella vita delle comunità cristiane della Terra Santa. Importanza non solo economica per i cristiani di Terra Santa: come ripete spesso, infatti, padre Pierbattista Pizzaballa, oggi amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, la presenza dei pellegrini porta soprattutto la vita nelle comunità locali, le fa sentire meno sole in un tempo difficile in cui anche a Gerusalemme arrivano forti gli echi di quanto accade ai “fratelli” in Siria o in Iraq. Ma smettere di guardare a Gerusalemme è – soprattutto – una risorsa in meno per tutti noi. Perché proprio quel suo essere così complicata, quel suo intreccio unico di sinagoghe, moschee e chiese di ogni rito, sono ciò che rende la Città Santa la scuola più esigente e insieme più feconda per chi vuole seminare pace. «Incontrare Gerusalemme – scriveva qualche anno fa Carlo Maria Martini – vuol dire incontrarla per amarla, per raccogliere – pur nelle tensioni che sempre ha vissuto e vive ancora oggi – il suo appello a diventare operatori di pace».

«Mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo», dice il Salmo su Gerusalemme. E se fosse proprio per questo che oggi, in questo mondo così lacerato, facciamo tanta fatica a parlare seriamente di pace?