AL DI LA’ DEL MEKONG
Se il desiderio corre più forte dell’intelletto

Se il desiderio corre più forte dell’intelletto

LA RIFLESSIONE

 

Puan è cristiano da pochi mesi. Il suo è il primo battesimo celebrato dal mio arrivo in parrocchia. Sposato e poco più che quarantenne, ha insistito molto per ricevere il sacramento, anche se ha studiato poco. La sua incostanza alle lezioni di catechismo, infatti, avrebbe dovuto farci tergiversare e rimandare la celebrazione. L’insistenza della sua fede, invece, ci ha indotti a bruciare le tappe e a scusare le sue assenze, giustificate peraltro dal lavoro che spesso lo allontana da casa. Durante il colloquio per la verifica delle motivazioni, ha semplicemente espresso l’unico suo desiderio: diventare figlio di Dio. Con una tale freschezza che in lui già parlava lo Spirito, quello Spirito che «attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio» (Rom 8,16) e grida in noi «Abba, Padre!».

Posso dire con certezza che il cuore di Puan si è messo a correre ben più velocemente del suo intelletto. Anzi, lo ha superato e lo ha portato all’incontro con il Signore Gesù nel sacramento del battesimo. Si è sentito benedetto pur appartenendo ad un’altra stirpe, ad un’altra discendenza rispetto ad Abramo. Eppure ha sentito quella promessa fatta all’inizio – «in te saranno benedette tutte le nazioni» (Gal 3,8) – avverarsi anche per lui. Paolo nella lettera ai Galati insiste sul fatto che in Gesù, e nel suo morire per tutti, si realizza quella promessa. Tuttavia c’è un passaggio della lettera nel quale Paolo usa un linguaggio ermetico al limite della comprensibilità. Forse qui, come per Puan, anche a noi occorre più desiderio che intelletto non perché la fede sia in contrasto con la ragione, ma perché per comprendere il mistero di Dio bisogna vivere in rapporto con Lui, e provare ad amarlo prima che a capirlo!

Ora – scrive Paolo (3,16) – è ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Cita la Scrittura che non dice «e ai tuoi discendenti», come se si trattasse di molti, ma «e alla tua discendenza», come a uno solo, cioè Cristo. Qui come altrove, di fronte a passaggi così sintetici e oscuri, la Scrittura ci obbliga a scavare, a «lavorare come minatori / al capezzale delle parole», scrive Chandra Livia Candiani.

Ci chiediamo dunque: perché la Scrittura usa il singolare «discendenza» e non il plurale «discendenti» («discendenze», secondo la traduzione proposta da Silvano Fausti), se la promessa ad Abramo riguarda tutte le genti e tutte le discendenze, non solo quella di Abramo? Può essere utile riferirci a quel passo in cui Gesù dice di sé: «In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse Io sono» (Gv 8,58). Qui Cristo viene prima di Abramo. Egli è il Verbo di Dio per mezzo del quale tutto è stato creato e per mezzo del quale tutto è stato rivelato. A monte della promessa quindi non c’è Abramo, ma Cristo nel Mistero del Dio Uno e Trino. In questo ultimo intervento tocchiamo l’origine prima di ogni inizio, e l’eterno dopo ogni fine. Se Dio ci ha creati nel Verbo e «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3) allora in virtù di quel Verbo noi tutti proveniamo da un solo seme e formiamo una sola discendenza, predestinata, eletta e santificata. Nella logica di Dio tutte le genti e le loro discendenze si raccolgono nell’unica discendenza di Cristo. Perché in Lui siamo stati creati e «siamo stati scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati (…) predestinandoci ad essere suoi figli adottivi» (Ef 1,4-5).

Con cognizione di causa posso dire che per natura Puan non è della mia stirpe e nemmeno della mia discendenza, ma in Cristo si è ritrovato per grazia ad essermi caro come un fratello di sangue. Paolo stesso nel mettere in discussione l’efficacia dei sacrifici pagani ribadisce l’unicità del sacrificio di Cristo, il solo capace di farci uno: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10,16-17). Quel «e alla tua discendenza» si riferisce precisamente all’unica discendenza di Cristo che, nell’unica fede e nell’unico pane, fa dei molti un corpo solo, «come  uno solo». Se Abramo è dunque all’inizio della promessa, Cristo è all’origine e al suo compimento.

Papa Francesco in Evangelii Gaudium 266 si permette una stupenda e delicata difesa dell’unicità di Gesù e afferma che «non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, (…) camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, (…) poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione». Allo stesso modo, tornando a Puan, potremmo dire che non è la stessa cosa sapere di essere figlio di Dio o non saperlo, così come non è la stessa cosa per me pensare a lui come a un uomo qualunque o come a un fratello di sangue, della mia stessa discendenza. E questo vale per tutti noi che, pur essendo molti, diventiamo un corpo solo, una sola discendenza in Cristo. Non è la stessa cosa sapere questa verità o ignorarla. Fa piuttosto una grande differenza, la differenza cristiana. E chi ne viene a conoscenza, si mette a correre per il desiderio di abbracciarla.

Vale dunque la pena scavare come minatori al capezzale della Parola, per rendersi conto che il Verbo di Dio, nostra origine e nostro destino, impreziosisce le nostre vite, le avvicina a Lui e ci avvicina gli uni gli altri fino a comprendere che «non ci sono distanze col Cielo – scrive Giuseppe Centore -. Per ciò che tocca Dio tutto è al suo posto». Buon Natale!