Padre Enock Bouba racconta la vita pastorale nelle isole alla foce del Rio delle Amazzoni. Tra viaggi perenni, formazione umana e alla tutela ambientale, tutto declinato secondo il ritmo del fiume
L’Amazzonia e i suoi abitanti vivono al ritmo del fiume. E il fiume non si ferma mai. Perciò anche i missionari, in quella sconfinata distesa verde, fanno il loro lavoro in movimento e hanno un modo molto diverso da quello italiano di intendere la parrocchia.
Siamo alla foce del Rio delle Amazzoni, un’area di centinaia di chilometri quadrati tra gli Stati del Pará e dell’Amapá, dove la terra è frammentata in un grappolo di isole; alcune delle dimensioni di una metropoli, altre poco più grandi di uno scoglio. Il centro principale, Macapá, è un porto internazionale in una posizione strategica alla porta dell’Amazzonia, con tutti i problemi che ne derivano.
Poco più nell’entroterra sorge Santana, città-satellite anch’essa affacciata (come tutto) sul Rio, dove si trovano due missionari del Pime: padre Giancarlo Vecchiato, trevisano di adozione brasiliana dal 1974, e padre Enock Bouba, camerunese in Amazzonia dal 2013. Il loro indirizzo, ufficialmente, è quello della parrocchia di Nostra Señora dos Navegantes, nel porto di Santana. Ma è difficile trovarceli. «Non c’è abitazione lì. Ormai è solo un piccolo magazzino in cui teniamo i nostri materiali. La parrocchia è stata assorbita da quella più grande di Nostra Señora de Fatima e noi siamo loro ospiti, quando siamo in città», spiega padre Enock. «Ma stiamo lì solo per poco, quattro o cinque giorni al massimo. La nostra parrocchia è composta da 108 comunità cristiane divise in 16 settori e sparse sia sulla terraferma che sulle isole. Perciò siamo sempre in viaggio per visitarle tutte. Stiamo via dai quindici ai venti giorni, mai di più perché per legge il timoniere della barca poi deve tornare a casa. Riusciamo a essere in una comunità diversa ogni giorno, poi torniamo a Santana e ripartiamo dopo meno di una settimana. In questo modo ogni sei mesi riusciamo a visitare tutte le comunità; dopodiché ricominciamo il giro per un secondo semestre». E questo senza contare i viaggi per attività straordinarie, principalmente momenti di formazione o giornate speciali per giovani e famiglie.
Come tutte le zone lontane dall’attenzione del resto del mondo, anche Santana e dintorni soffrono di gravi problemi come droga, disoccupazione, prostituzione, corruzione diffusa… Accentuati dalla particolare conformazione insulare del territorio. «Nel weekend i ragazzi di città vanno a spacciare droga nelle isole, dove c’è meno controllo, soprattutto se sanno che è in corso una festa o un torneo di calcio. Hanno dai dodici ai quattordici anni. Ogni settimana ne muoiono uno o due, vengono uccisi sia dai membri di altre bande criminali, sia dai poliziotti. C’è corruzione ovunque, perché dove c’è droga non c’è trasparenza. E soprattutto c’è una violenza estrema». Che talvolta sfocia in veri e propri massacri.
«Qualche tempo fa un ragazzo proveniente dalle isole ha fondato una sua banda», racconta padre Enock. «L’ha chiamata Vida Loca. Entravano nelle case e le saccheggiavano. Torturavano chi non consegnava tutti i soldi, filmavano quelle atrocità e le diffondevano per convincere le prossime vittime a collaborare. Hanno fatto delle stragi, ma sono stati catturati. Tutti tranne il fondatore, lui è ancora libero e si nasconde nelle isole. La grandezza della natura lo protegge, la polizia lì non ci va spesso. Io conosco suo padre: credo sia quello che ha sofferto di più».
Il lavoro di padre Bouba e di padre Vecchiato si muove proprio in questa direzione: formare le comunità cattoliche non solo nella liturgia e nella catechesi, ma anche nel contrasto ai grandi problemi dell’Amazzonia.
«Deforestazione, delinquenza… Le persone sentono queste cose in televisione, ma non capiscono fino a che punto le coinvolgono», spiega padre Enock. «Perciò organizziamo giornate di formazione con i responsabili delle comunità e della diocesi, declinando i temi di cui parlare in base alle necessità della zona. Per esempio in una comunità usavano il veleno contro le formiche anche per pescare i gamberi. Era molto veloce e comodo: lo butti in acqua e subito i gamberi muoiono e vengono a galla. Solo che quel veleno uccideva qualunque cosa e contaminava l’acqua del fiume, la stessa che loro usavano per bere, cucinare e lavarsi. Siamo partiti da questo per parlare della Laudato Si’ di Papa Francesco».
I temi della cura dell’ambiente sono particolarmente cari a padre Enock. Da una sua idea sta infatti nascendo un progetto per realizzare piatti 100% compostabili. «Dopo una giornata di formazione dovevo mangiare ma non avevo un piatto, allora ho usato due foglie di açaì, una pianta molto comune. Mi sono reso conto che erano perfette e ho pensato che avrebbero potuto facilmente sostituire le stoviglie di plastica che in Amazzonia sono una seria minaccia per l’ambiente».
Il missionario si è intestardito contro il parere di tutti e, nei ritagli di tempo tra un viaggio pastorale e l’altro, ha trovato un metalmeccanico disposto a collaborare. Hanno realizzato una pressa artigianale utilizzando il cric di un’automobile e fatto i primi tentativi. «I primi piatti realizzati non mantenevano la loro forma. Tutti mi dicevano di lasciar perdere, ma io non volevo» racconta padre Enock. «Poi mi sono ricordato dei consigli che mi dava mio zio elettricista e ho suggerito di scaldare le foglie di açaì per dar loro la forma. Al primo tentativo il piatto ha preso fuoco, ma dalla seconda volta sono venuti tutti perfettamente».
L’obiettivo principale di padre Bouba è proteggere l’ambiente e incarnare l’ispirazione di Papa Francesco, al quale ha spedito uno dei suoi piatti in occasione del Sinodo per l’Amazzonia. Ma il sogno del missionario è anche di trasformare la sua idea in una fonte di reddito, soprattutto per i giovani. «Tanti ragazzi non possono permettersi di completare gli studi. Vorrei realizzare delle macchine per i piatti con una vera pressa e aprire una cooperativa con gli studenti: dalla vendita dei piatti di açaì ricaverebbero abbastanza per le rette scolastiche».