Dall’Iraq al Libano, i giovani scendono in piazza contro corruzione e inefficienza. E per la prima volta sfidano le logiche settarie dei loro Paesi
La scena è sempre simile: giovani esasperati, avvolti nelle bandiere del loro Paese, urlano slogan contro il sistema e i leader corrotti, rivendicano un lavoro dignitoso e servizi efficienti, vogliono la thawra, la rivoluzione. Dall’Egitto all’Iraq al Libano, a nove anni dalle Primavere che hanno cambiato il volto del Medio Oriente con esiti anche drammatici, il mondo arabo è sceso di nuovo in piazza.
A fine settembre piazza Tahrir, al Cairo, è tornata a riempirsi di manifestanti, che in seguito alle rivelazioni via social dell’imprenditore Mohamed Ali su presunte spese folli con denaro pubblico del presidente Al Sisi ne chiedevano le dimissioni. Una rivendicazione subito stroncata dalla repressione del governo, che ha colto l’occasione per un giro di vite contro le voci scomode: attivisti e studenti, giornalisti e avvocati, per un totale – secondo le associazioni per i diritti umani – di almeno tremila persone arrestate.
Ma, in un Paese dove cinquanta milioni di giovani sotto i 24 anni – più della metà della popolazione – vedono il proprio futuro inesorabilmente intrappolato in un sistema clientelare, in mancanza di decise riforme economiche ma anche sociali e politiche la pressione non potrà essere tenuta sotto il coperchio a lungo. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Egitto dovrà generare 3,5 milioni di nuovi posti di lavoro nei prossimi cinque anni se vorrà far fronte alle esigenze dei suoi figli, che aumentano a un tasso annuo del 2%.
Il prologo di quest’ondata di rivolte l’avevano scritto l’Algeria e il Sudan. Ad aprile, dopo settimane di proteste, l’inossidabile presidente algerino Bouteflika aveva dovuto dimettersi, ma la gente non ha mai smesso di chiedere il ricambio dell’intera classe politica e rifiuta le elezioni presidenziali previste per il 12 dicembre. Negli stessi giorni, in Sudan, un colpo di Stato militare seguito a quattro mesi di agitazioni giovanili, duramente represse dal regime, aveva portato alla deposizione del presidente-dittatore Omar Al Bashir. Dopo lunghe trattative, il movimento della società civile ha ottenuto un accordo con i militari, dal quale all’inizio di settembre è nato un governo (nei cui banchi siedono quattro donne, mentre la cristiana Abdel Masseh è stata eletta al Consiglio sovrano) che dovrà traghettare il Paese alle elezioni del 2022.
Ma mentre a Khartoum tornava la calma, la scintilla della rivolta si accendeva in Iraq. A ottobre, migliaia di ragazzi hanno cominciato a invadere le piazze di Baghdad e dei principali centri del Sud del Paese, dall’inquieta Bassora a Nasiriyah alla città santa sciita di Karbala, urlando slogan contro una classe politica ritenuta ostaggio di potenze esterne (a cominciare dall’Iran) e incapace di garantire servizi decenti ai cittadini.
Nonostante già la prima settimana di proteste avesse lasciato per le strade 150 vittime (salite a 260 in meno di un mese) a causa della brutalità della polizia, i giovani hanno rifiutato di tornare a casa, alzando anzi il tiro delle loro richieste: non più solo misure socioeconomiche ma modifiche costituzionali, oltre alla sostituzione di un’intera classe dirigente le cui logiche considerano inaccettabili.
Pur in un Paese abituato alle sollevazioni popolari, questa nuova generazione di indignati (di cui molti non erano nemmeno nati quando Saddam Hussein fu spodestato) sta infatti portando avanti un modello inedito, caratterizzato da un nazionalismo che per la prima volta cerca di mettere da parte il settarismo di cui sono tradizionalmente intrisi i rapporti sociali e politici in Iraq. Le zone coinvolte nelle proteste sono a maggioranza sciita, la stessa confessione degli esponenti politici contestati per la loro incapacità e corruzione. Il punto è che questi ragazzi si identificano molto meno, rispetto ai loro padri, con la propria appartenenza religiosa, e sono perciò più immuni dall’influenza di autorità fino a oggi “intoccabili”.
Un completo ribaltamento di paradigma, simile a quello a cui assistiamo in Libano, un altro Paese arabo giovane (il 42% degli abitanti ha meno di 24 anni) e sull’orlo del collasso per l’incredibile inefficienza di un sistema politico dominato dagli stessi clan familiari dai tempi della tragica guerra civile degli anni Ottanta, durante la quale le diverse componenti comunitarie del mosaico libanese si erano massacrate reciprocamente.
In uno Stato che, a trent’anni dalla fine del conflitto, è ancora incapace di garantire l’elettricità alle case 24 ore su 24, il varo di un nuovo pacchetto di imposte, tra cui la famigerata tassa sulle telefonate via WhatsApp, ha fatto traboccare il vaso dell’esasperazione. Non solo a Beirut ma un po’ dappertutto folle sterminate hanno occupato i centri urbani, con i manifestanti per la prima volta uniti espressamente al di là delle appartenenze confessionali e delle simpatie politiche. Una mobilitazione che, oltre a portare alle dimissioni del premier Hariri, ha fatto tremare i potentati che si spartiscono l’influenza in Libano. Fino a mettere in discussione lo stesso sistema del “comunitarismo” – la suddivisione delle cariche politiche secondo quote su basi confessionali – che ha garantito il delicato equilibrio politico degli ultimi decenni.
Le piazze di Tiro o Baalbek, roccaforti sciite, sorde ai diktat di Hezbollah e Amal che intimavano di sospendere le mobilitazioni, dicono molto sulla novità di ciò che sta succedendo. I leader cristiani, in Libano e in Iraq, si sono espressi a sostegno dei manifestanti pacifici. Certo qui, come altrove, la situazione è estremamente delicata. La carica di rinnovamento rischia sempre, come insegna il passato, di venire spenta dalla violenza o dalla minaccia del caos. Ma le immagini di migliaia di libanesi, cristiani e drusi, sunniti e sciiti, mano nella mano in una lunga catena umana che ha unito il Paese, sono comunque un punto di non ritorno.