Dopo decenni la comunità cattolica di Gaza festeggia la vocazione di un giovane locale. «Ho vissuto la guerra: voglio portare pace»
Da Gaza, prigione a cielo aperto, al mondo per portare il Vangelo, la testimonianza e il messaggio di Cristo «ovunque serva» in spirito di «obbedienza». Perché essere cristiani della Striscia è «una missione, una grazia e, al tempo stesso, una responsabilità». Parole semplici ma dirette, quelle del 23enne Abdallah Jeldah, che raccontano una fede salda, formatasi in un lembo di terra abituato alla sofferenza. Un percorso maturato nel tempo, che lo ha portato ad abbracciare il cattolicesimo nel 2019, lui che è nato in una famiglia greco-ortodossa. Il 10 ottobre ha emesso i voti iniziali della professione religiosa e adempiuto alla cerimonia di vestizione, prima vocazione locale dopo decenni senza preti o religiosi nativi. Dopo aver concluso il noviziato, entrerà a far parte dell’Istituto del Verbo Incarnato (Ive), lo stesso ordine di cui è membro il parroco di Gaza padre Gabriel Romanelli, sacerdote argentino che ha celebrato la funzione in un clima di festa per tutta la comunità. «La mia vocazione – racconta – è nata frequentando la Sacra Famiglia e l’allora parroco don Mario da Silva, osservando le attività pastorali e l’esperienza con i giovani». La scoperta di voler diventare sacerdote e missionario «mi ha dato una grande pace interiore».
Di recente ha professato i quattro voti: carità, castità, obbedienza e consacrazione a Gesù attraverso la Madonna. Da Gaza a Betlemme, da Nazareth a Gerusalemme «noi siamo i discendenti dei primi cristiani e vogliamo vivere la fede annunciando il Vangelo ovunque nel mondo, attraverso le opere e la preghiera». Una testimonianza necessaria nella Striscia, vessata dal durissimo blocco economico imposto da Israele contro Hamas e dove le conseguenze della sanguinosa guerra-lampo dello scorso maggio si sentono ancora. «Ho vissuto quattro conflitti, ho quasi un “dottorato in guerra” – scherza amaramente il novizio – ma ho sempre lasciato spazio alla speranza, senza dimenticare il male. Per la pace ci vuole una giustizia salda, costante e permanente, e per questo voglio spendere la mia missione».
Ora Abdallah Jeldah è in attesa del visto, per entrare nel seminario della congregazione – fondata in Argentina nel 1984 e presente in 26 Paesi nei cinque continenti – a Montefiascone, in provincia di Viterbo. «La sua vocazione – sottolinea padre Romanelli – è fonte di allegria per tutti, dalla parrocchia di Gaza al patriarcato latino di Gerusalemme e per le altre congregazioni perché è segno di speranza». Ogni nuovo pastore, prosegue il sacerdote argentino, è importante ma la vocazione di Abdallah ha «tanti aspetti incredibili». Inoltre, che sia di Gaza «è un elemento ancora più grande, perché figlio di questa terra e “nipote” dei discendenti del Signore» in un momento storico in cui «la presenza cristiana è diminuita». Essere missionari, conclude il parroco, e andare nei luoghi più difficili del mondo «è una grazia: lui, che è nato e vissuto fra le guerre, non ha paura di andare là dove la Chiesa lo invierà», perché un cristiano della Striscia «sa essere luce e speranza».