Il Pime è presente in Bangladesh fin dai tempi dell’impero britannico. Una storia che continua, spiega il superiore padre Michele Brambilla
Quando i primi missionari del Pime arrivarono a Berhampur, nel 1855, il Bengala era ancora il cuore dell’impero coloniale britannico. I padri Albino Parietti, Luigi Limana e Antonio Marietti, insieme al catechista Giovanni Sesana, approdarono e operarono in quella che è l’attuale India, mentre pian piano diversi loro successori si spostarono più a est: prima nella zona di Khulna, oggi Sud del Bangladesh, per poi oltrepassare il Gange, che qui si chiama Brahmaputra, verso settentrione. «La diocesi di Dinajpur, dove io risiedo, fu fondata nel 1927», racconta padre Michele Brambilla, superiore dell’Istituto nel Paese e direttore del St. Vincent Hospital. I suoi confratelli che l’hanno preceduto hanno vissuto decenni di rivolgimenti politici e sanguinose ribellioni che, dall’indipendenza indiana dai britannici nel ’47, portarono infine alla nascita del Bangladesh cinquant’anni fa.
Dall’assistenza ai malati di lebbra alla missione tra la popolazione indigena dei santal, intrapresa fin dai primi anni del Novecento, «il nostro carisma è sempre stato quello di raggiungere coloro che non conoscono Gesù e che qui sono la maggioranza, visto che i musulmani sono quasi il 90% della popolazione e gli indù tra l’8 e il 9%», spiega padre Brambilla. «E se l’1% segue ancora le religioni tradizionali, noi cristiani non raggiungiamo nemmeno questa quota: i cattolici sono 600 mila su 165 milioni di abitanti!».
Una sfida difficile quanto appassionante: «Andare incontro alle persone e condividere le loro vite è il bello della missione! Fin dall’inizio, una parte preponderante del nostro impegno consiste nel visitare i villaggi. A differenza delle parrocchie italiane, infatti, dove i fedeli vivono tutti nei pressi della chiesa, qui abbiamo il nucleo della missione a cui fanno poi riferimento decine di piccoli centri, in certi casi più di cento: ecco perché è così importante che il sacerdote, o la suora, o i laici catechisti, vi si rechino periodicamente, anche per portare i sacramenti», racconta il superiore regionale.
Ma non si tratta solo di una questione logistica: «Anche nei contesti urbani non trascuriamo mai le relazioni umane, l’amicizia con le famiglie, il supporto ai giovani che hanno bisogno di un consiglio o di aiuto materiale». Che siano gli allievi della Novara Technical School di Dinajpur, fondata nel 1965 da padre Faustino Cescato e oggi uno degli istituti professionali più apprezzati del Paese, o gli ospiti degli ostelli del Centro Gesù lavoratore di Zirani, alla periferia industriale di Dacca.
«La Chiesa del Bangladesh è costituita da popoli diversi: ci sono le famiglie bengalesi, di più antica evangelizzazione, in cui spesso i giovani hanno l’opportunità di andare a studiare all’estero o nella capitale, dove trovano buoni posti di lavoro, e le minoranze etniche, che invece sperimentano condizioni di povertà e spesso di disagio». Proprio al servizio dei tribali – orao, santal, munda… – si concentra oggi l’impegno dei missionari.
«Si tratta di famiglie che tradizionalmente vivono lavorando la terra, ma che oggi devono affrontare la carenza dei terreni a disposizione, suddivisi nel corso delle generazioni e ora insufficienti per garantire un futuro ai figli, i quali negli ultimi anni, con lo sviluppo industriale del Paese, tendono a lasciare i villaggi e a trasferirsi a Dacca per trovare lavoro. Questa situazione – sottolinea padre Michele – sta portando a una disgregazione familiare, con i genitori anziani che si trovano senza più nessuno ad accudirli». Senza contare il problema dilagante dell’alcolismo e delle dipendenze, ma anche la condizione di subalternità delle donne.
Sul fronte sociale, il Pime è sempre stato in prima linea. Dalla promozione delle Credit Union, le “banche dei poveri” rilanciate da padre Giulio Berruti nel 1991, all’assistenza sanitaria, con numerosi dispensari e gli ospedali. «Il St. Vincent Hospital, che io dirigo qui a Dinajpur e che gestiamo insieme alle suore di Maria Bambina e a quelle della congregazione locale Shanti Rani fondata dal nostro vescovo Giuseppe Obert, rappresenta un centro d’eccellenza accessibile ai poveri. Abbiamo la sala parto e un nuovo reparto di fisioterapia, servizio raro in Bangladesh, mentre offriamo la degenza a basso costo ai pazienti che hanno subito interventi specialistici in altri centri».
In questa struttura diocesana, dove lo staff è costituito da cristiani, indù e musulmani, l’assistenza sanitaria va di pari passo con il supporto umano – «da sacerdote insegno al personale che l’ammalato è prima di tutto una persona da incontrare» – e sociale, fondamentale «in un Paese dove in 24 milioni vivono sotto la soglia di povertà, ma anche gli altri fanno fatica». Non a caso, all’ospedale è collegata una scuola per infermieri riconosciuta dal governo, che ogni anno permette a 60 studenti di accedere al mondo del lavoro: «Per l’ammissione ai corsi teniamo conto, oltre che dei voti, anche dell’appartenenza dei candidati alle diverse parrocchie, così da promuovere in prospettiva uno sviluppo il più possibile capillare sul territorio», spiega il superiore regionale.
Tutte le opere del Pime in Bangladesh sono al servizio della Chiesa locale, nelle tre diocesi in cui l’Istituto è presente: Dacca, Dinajpur e Rajshahi. «In molte parrocchie abbiamo scuole di ottima qualità, frequentate da allievi di diverse religioni e spesso anche dai figli dei quadri dirigenti del Paese».E poi ci sono i progetti legati alla creatività dei singoli missionari, come – solo per fare due esempi tra i tanti – l’impegno di fratel Lucio Beninati a fianco dei bambini di strada o quello di padre Francesco Rapacioli per le persone vittime di dipendenze. Prova della necessità di adeguarsi ai bisogni di una società in rapida evoluzione. «Il Bangladesh è cresciuto moltissimo dal punto di vista economico, tanto che punta a diventare nel 2030 un Paese a medio reddito, ed è passato in breve dall’agricoltura al recente boom industriale, mentre il governo sta investendo molto sul digitale. Ma questi cambiamenti, se da una parte hanno portato un certo sviluppo e la nascita di una classe media, sono andati di pari passo con l’acuirsi delle diseguaglianze: l’estensione degli slum a Dacca è impressionante». E così, anche il Pime si lascia interpellare dalle sfide presenti, senza mai dimenticare le radici.