Nel dramma del Paese la storia di una famiglia perseguitata per la propria fede in Gesù, che ora in Italia celebrerà il suo primo Natale grazie a un appello lanciato da AsiaNews che non è caduto nel vuoto
Sono cristiani, ma una chiesa non l’avevano mai vista. Perché in Afghanistan di chiese non ce n’erano, anche prima del ritorno dei talebani. E lo stesso nome di Gesù, tramandato senza tante parole di contorno da una generazione all’altra, per loro era un segreto da tenere ben custodito.
Nella casa di Zandobbio (Bg) dove vive da qualche settimana, ci consegna la storia della sua famiglia la signora Pari Gul. In un tranquillo paesino della provincia di Bergamo, lontano migliaia di chilometri da quell’inferno di Kabul dove appena quattro mesi fa – proprio nei giorni in cui arrivavano di nuovo i talebani – questa donna di 57 anni una mattina ha visto uscire di casa il marito Mossin senza fare più ritorno. In Italia è arrivata tra le migliaia di altri esuli con il ponte aereo allestito dal governo italiano, insieme alle due figlie sposate, ai loro mariti, agli altri quattro figli e a cinque nipoti: un gruppo di 14 persone di ogni età fino a Elias, il più piccolo, di appena 20 mesi. Ad accoglierli è stata la Fondazione Meet Human di Bergamo, che li sta aiutando a voltare pagina dopo questa drammatica esperienza. Anche se di Mossin, il padre inghiottito dalla vendetta di qualcuno che aveva scoperto che loro erano cristiani, non hanno saputo più nulla.
Pari Gul e i suoi figli e nipoti sono uno dei volti meno conosciuti della tragedia che ha investito l’Afghanistan quest’estate. La loro, infatti, è la storia dei cosiddetti “cristiani nascosti” di Kabul. Quelli che secondo le statistiche ufficiali non dovrebbero nemmeno esserci in un Paese dove, anche quando al governo non c’erano i talebani, un afghano non poteva apertamente professarsi cristiano. Invece ci sono: qualche centinaio, forse 2 mila come dicono alcune stime diffuse da ambienti evangelici americani. Famiglie appartenenti a piccoli gruppi che non sanno più neanche loro di preciso a quale confessione appartengano. Ma in un contesto così difficile hanno tenuto vivo l’abc del Vangelo: il ricordo di Gesù e il suo messaggio d’amore incondizionato verso tutti.
Nei drammatici giorni di agosto, quando i talebani avanzavano verso Kabul, su AsiaNews – l’agenzia on line di informazione promossa dal Pime – abbiamo chiesto una testimonianza ad Ali Ehsani, esule afghano, anche lui proveniente da una famiglia cristiana, che quello stesso inferno lo aveva già vissuto sulla sua pelle negli anni Novanta. Avevamo letto il suo libro Stanotte guardiamo le stelle (Feltrinelli) in cui raccontava l’orrore seminato nel Paese dai talebani e la sua personale odissea di ragazzino rimasto orfano a causa di un attentato e poi arrivato in Italia dopo un lungo viaggio nel quale ha perso anche il fratello, l’unico punto di riferimento che gli era rimasto. Fu proprio con noi che Ali parlò per la prima volta pubblicamente di Pari Gul e di quel marito portato via, chiedendoci se potevamo fare qualcosa per questa famiglia in pericolo.
«Appartengono alla minoranza hazara, la più perseguitata dagli islamisti – spiega Ehsani, che oggi si è trasferito con loro a Zandobbio e li sta accompagnando nel loro inserimento in Italia -. Vivevano nel quartiere di Taimani a Kabul, che è una zona mista: vi abitano anche dei pashtun, lì si sentivano al sicuro.
Da Roma ero entrato in contatto con loro su Whatsapp già da qualche mese. Chiedevo: “Siete cristiani?”, ma non mi rispondevano perché temevano fossi una spia. Finché un giorno non mi hanno chiesto: “Tu vai a Messa? Puoi mandarci delle fotografie?”. La domenica successiva ho fatto con loro una videochiamata. Ho detto: “State in silenzio” e li ho collegati alla celebrazione. Ho visto la gioia sui loro volti».
Probabilmente sono state proprio quelle immagini a tradire questa famiglia afghana: per vederle tutti insieme hanno collegato il telefono alla televisione, ma qualcuno dei vicini ha iniziato a porre domande su “quella musica strana che ascoltavano”. Così una mattina di agosto Mossin a Kabul è sparito nel nulla. «Mi hanno telefonato – ricorda Ehsani – e io ho detto loro: dovete andarvene, altrimenti verranno a prendere anche voi. Sono rimasti per giorni nascosti al buio in uno scantinato in un altro quartiere mentre la città cadeva nelle mani dei talebani. Pagavano il proprietario perché non raccontasse a nessuno che erano lì e permettesse loro almeno di ricaricare il cellulare».
Nel frattempo dall’Italia Ali bussava a ogni porta per cercare di aiutarli. La prima a muoversi è stata Silvia Costa, ex parlamentare europea, che ha segnalato il caso al ponte aereo che il governo italiano in quelle ore stava attivando.
Nel frattempo da Bergamo la Fondazione Meet Human ha contattato AsiaNews: avevano letto l’appello sulla sorte di questa famiglia che avevamo pubblicato sull’agenzia, non volevano restare indifferenti. «Sarà una goccia nel mare di questa sofferenza – ci ha detto il presidente, Daniele Nembrini – ma anche l’oceano è fatto di gocce».
Rimaneva il problema di raggiungerli, un’impresa non facile nel caos di quelle giornate convulse a Kabul: lo scantinato dove erano rifugiati, infatti, era in una zona inaccessibile per i militari italiani. Così la famiglia di Pari Gul si è mossa per raggiungere con mezzi propri la zona dell’aeroporto; tra cellulari che si scaricavano e mille altri imprevisti sono riusciti a far avere ad Ali – che teneva i contatti – le coordinate della loro posizione. Alla fine è stata una tanica arancione il segnale che ha permesso alle squadre speciali dell’esercito italiano di riconoscerli e portarli in salvo sull’aereo.
Una volta giunti a Roma la Fondazione Meet Human li ha presi totalmente in carico avviando un percorso di inserimento sociale in Italia: nelle prime settimane sono stati ospiti nella casa della Fraternità sacerdotale San Carlo nella capitale. Ed è stato qui che, per la prima volta nella loro vita, questi cristiani hanno avuto la possibilità di entrare in una chiesa. «Quando l’hanno vista – racconta Ehsani – si sono messi a piangere dalla gioia. Dicevano: “Noi non sappiamo come pregare. Adesso però guardiamo le immagini di Gesù e possiamo dire: siamo qui davanti a Te”».
A Roma hanno avuto anche la gioia di incontrare Papa Francesco il 22 settembre, in un momento privato prima dell’udienza generale. A lui hanno raccontato tutta la loro storia, con l’angoscia per Mossin. Pari Gul quel giorno aveva con sé anche un dono che voleva assolutamente consegnare al Pontefice: un anello, una delle poche cose che era riuscita a portare con sé dall’Afghanistan.
«Il Papa non lo voleva – racconta Ali – ma lei insisteva. Così lui le ha detto: “Va bene, accetto il tuo dono. Ma se lo tengo io qui in Vaticano finirà in qualche deposito. Facciamo così: custodiscilo tu per me. Però ricordati: questo adesso è l’anello del Papa…”. Anche per me – aggiunge Ehsani – l’incontro con Francesco è stato un momento indimenticabile: ho ripensato tanto ai miei genitori».
A Zandobbio, dove sono ormai da qualche settimana, hanno iniziato a studiare l’italiano: i bambini – velocissimi nell’imparare le prime parole – si preparano ad andare a scuola; i più grandi inizieranno un percorso verso il lavoro. Ma la loro gioia più grande, adesso, è poter andare a Messa alla domenica. Il parroco li ha accolti, presentandoli alla comunità in un momento di festa. Sentirsi liberi di vivere la propria fede insieme agli altri è il dono di questo loro primo Natale. «In Afghanistan i cristiani devono fare sempre grande attenzione – commenta ancora Ehsani – c’è tanta paura che qualcuno ti possa denunciare. Tra loro stessi si riconoscono attraverso piccoli segni, un po’ come il simbolo del pesce nella Roma delle prime persecuzioni. Ma il gesto vero attraverso cui si rivelano è il perdono. Ricordo che quando ero piccolo io dicevo a mio padre: “Quella persona ti ha fatto del male, perché tu non reagisci?”. E lui mi rispondeva solo: “Gesù ci insegna a perdonare”».
Gocce di Vangelo nascoste anche nella terra arida della Kabul di oggi. Tra quanti sono rimasti là, oggi più soli che mai. Senza una chiesa, ma con lo sguardo fisso su quel Maestro tramandato di generazione in generazione. Che li accompagna anche in quest’ora così buia. MM
INFERNO AFGHANISTAN
Una serata in ascolto delle voci di un Paese martire. È quella che propone il Centro Pime, con il patrocinio dell’arcidiocesi di Milano, mercoledì 15 dicembre alle ore 21, nella basilica di Sant’Ambrogio.
Porterà la sua testimonianza suor Shahnaz Bhatti, suora della Carità di Santa Giovanna Antida, già responsabile del Centro PBK per bimbi disabili mentali a Kabul, fuggita precipitosamente con alcuni operatori. Interverranno anche una famiglia cristiana e un profugo arrivati con il ponte aereo e una giovane studentessa portata in Italia dall’isola greca di Lesbo grazie ai corridoi umanitari.
L’iniziativa si inserisce nel percorso di avvicinamento al Festival della Missione 2022 e vede la collaborazione di Caritas Ambrosiana, Casa della Carità, Oasis, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Meet Human e AsiaNews.