Dopo due anni difficili a causa della pandemia, a Natale sono attesi pellegrini da tutto il mondo, Asia e Africa comprese. Ad accoglierli strutture e proposte nuove, ma anche l’invito a «incontrare davvero questi luoghi»
Sull’acciottolato chiaro della piazza della Mangiatoia, di fronte alla basilica sorta sul luogo dove nacque Gesù, sono ricomparse le comitive di pellegrini. Il grande abete adornato, che di sera si illumina creando uno spettacolo suggestivo, attira i turisti per le foto ricordo, mentre le strette vie della Betlemme storica, punteggiate dalle botteghe di artigianato locale, sono di nuovo animate. Dopo i due anni terribili della pandemia di Covid-19, la Terra Santa aspetta questo Natale finalmente con speranza. Nonostante le tensioni e l’instabilità politica, che raramente lasciano del tutto tranquilla la regione, i luoghi più significativi per i fedeli, da Nazareth in Galilea alla città vecchia di Gerusalemme, attraversata dalla Via dolorosa che sale al Santo Sepolcro, stanno tornando ad accogliere i pellegrini.
Con qualche novità interessante, che salta agli occhi osservando i gruppi di stranieri nelle mete care alla devozione ed è confermata dai dati relativi agli arrivi registrati dal governo israeliano nei primi nove mesi dell’anno: se i turisti dagli Usa e dall’Europa restano i più numerosi (578 mila statunitensi, 170 mila francesi, 50 mila italiani), crescono le presenze dai Paesi extraeuropei. A fianco del Brasile e del Messico (con rispettivamente 43 mila e 24 mila arrivi), spiccano i 15 mila visitatori indiani e gli 11 mila filippini, i settemila sudcoreani ma anche i 37 mila africani. «L’incremento dei pellegrini dall’Asia e dall’Africa costituisce una tendenza che avevamo già osservato prima della pandemia e che ora vediamo consolidarsi», racconta il Custode di Terra Santa, fra Francesco Patton. «Al quinto posto tra i Paesi che chiedevano celebrazioni nei santuari, per esempio, c’era l’Indonesia, rappresentata in modo crescente, così come anche la Cina». Proprio per offrire un’assistenza pastorale specifica ai fedeli, alcuni religiosi cinesi si sono stabiliti in questi anni a Gerusalemme.
Particolarmente interessante, poi, la genesi dei nuovi flussi africani. Per esempio quello dei nigeriani, oltre cinquemila nei primi nove mesi del 2022: «Poiché il governo della Nigeria sovvenziona per metà il biglietto aereo dei cittadini musulmani che si recano alla Mecca, di recente la stessa agevolazione è stata introdotta anche per i fedeli cristiani che intendono raggiungere la Terra Santa», spiega il francescano. A conferma di quanto la tendenza si stia consolidando, la notizia che la compagnia nigeriana Air Peace istituirà i primi voli diretti Lagos-Tel Aviv. Anche gli egiziani godono di un supporto statale, visto che una decisione della Corte suprema ha concesso ai dipendenti copti che si recano a Gerusalemme il diritto a un mese di congedo retribuito, proprio come per i fedeli musulmani che intraprendono l’hajj alla Mecca. Ma i 4.600 cristiani arrivati dall’Egitto rappresentano una novità particolarmente significativa, visto che solo a gennaio il patriarca copto ortodosso Tawadros II ha ufficialmente cancellato le prescrizioni disposte in passato dai suoi predecessori che nel contesto del conflitto arabo-israeliano avevano vietato ai fedeli di visitare la Città santa. Tra le comitive in arrivo dal Continente africano spiccano qua e là alcune storie “minoritarie” ma non per questo meno interessanti, come nel caso dei 350 cattolici senegalesi che, accompagnati dal vescovo Paul Abel Mamba Diatta di Tambacounda, sono stati accolti anche al Patriarcato latino di Gerusalemme. «Un’area del mondo da cui, invece, quest’anno purtroppo i fedeli faticano ad arrivare è l’Europa dell’Est, colpita dalle conseguenze del conflitto in Ucraina», aggiunge Patton.
Ad aspettare i cristiani che torneranno a trascorrere il Natale nella terra di Gesù non mancano le nuove iniziative messe in campo dalla Custodia di Terra Santa ma anche dalle comunità locali e dalle amministrazioni municipali. Al Campo dei pastori nel territorio della cittadina palestinese di Beit Sahour, dove secondo la tradizione pernottavano coloro che per primi ricevettero dagli angeli la notizia della nascita di Gesù nella grotta della vicina Betlemme e dove già sorge il piccolo santuario francescano dalla forma di una tenda beduina, è stato inaugurato il nuovo Centro d’accoglienza per i pellegrini, parte di un più ampio progetto di riqualificazione volto a ospitare visitatori ma anche comunità locali desiderose di vivere momenti di convivenza e ritiri spirituali.
Proprio a Betlemme è stata invece aperta, grazie all’impegno dell’associazione Pro Terra Sancta, la Dar el Majus, la “Casa dei Magi”, all’interno della quale un’esperienza multimediale permette di ripercorrere le origini del mondo dal Big Bang fino all’evento storico della Natività, mentre un’altra sala ricostruisce visivamente l’aspetto della cittadina al tempo di Gesù e il suo sviluppo attraverso i secoli. Nella stessa sede è possibile sperimentare l’artigianato e la cucina tipici della Cisgiordania.
«Se è evidente che il ritorno dei visitatori ha un impatto fondamentale sull’economia locale, dall’accoglienza alla ristorazione – commenta fra Patton – importante è anche che i pellegrini, nel corso della loro esperienza di incontro “tridimensionale” con la Parola di Dio nei Luoghi Santi, abbiano qualche occasione di avvicinamento alle comunità che queste terre vivono ogni giorno». Un’opportunità che, purtroppo, pochi operatori ancora garantiscono, come conferma Aziz Abu Sarah, esperto palestinese nella risoluzione dei conflitti e titolare, insieme all’israeliano Scott Cooper, dell’agenzia Mejdi Tours: «Per noi viaggiare è una forma di diplomazia perché permette alle persone di aprirsi a idee e stili di vita diversi, ma anche a narrazioni inedite rispetto a quelle già note», spiega.
«Purtroppo la maggior parte dei pellegrinaggi non offre la possibilità di entrare in connessione con la gente: i viaggiatori di solito non incontrano né israeliani né palestinesi, a parte eventualmente la loro guida turistica. Un fatto bizzarro, se pensiamo che Gesù, nel suo muoversi tra la Galilea e la Giudea, si fermava sempre a parlare con la gente: la Samaritana, Zaccheo… Solo l’ascolto delle diverse storie permette di comprendere quella che chiamiamo Terra Santa, con la sua complessità». Senza contare che, paradossalmente «i turisti possono recarsi in molti luoghi a cui la gente locale non può accedere – i palestinesi non possono andare in Israele, gli israeliani temono di entrare in Cisgiordania – e hanno così l’opportunità di diventare ponti tra comunità, condividendo le esperienze che hanno ascoltato».
Nel caso dei pellegrini, il primo passo è senza dubbio avvicinare le comunità cristiane locali che – come sottolinea il Custode di Terra Santa – «nei secoli hanno tenuta viva la memoria della fede qui: un’opportunità preziosa è quella di partecipare a qualche celebrazione all’interno delle parrocchie arabe».Ci sono, poi, i pellegrini “locali”, in particolare quelli che arrivano, tra mille difficoltà, dalla Striscia di Gaza: «L’anno scorso ho incontrato un gruppo di fedeli giunti in occasione dell’inizio dell’Avvento. Erano commossi, per loro era un sogno che si realizzava… Sarebbe bello se questo potesse avvenire normalmente, senza bisogno di elemosinare un permesso», commenta fra Patton. Che ricorda un altro episodio, accaduto durante la pandemia di Covid-19, quando a frequentare la basilica della Natività c’erano solo i cristiani betlemmiti: «Mentre ero nella chiesa a registrare il messaggio di Natale, sono arrivati sei o sette ragazzini, tra cui qualche musulmano, e hanno acceso una candela davanti alla stella d’argento che ricorda la nascita di Gesù. Qui non c’è bisogno di fare il Presepe, perché abbiamo sotto gli occhi quello reale».