Da anni alcuni movimenti femminili, israeliani e palestinesi, lottano per un accordo che fermi il conflitto. E non hanno smesso neanche oggi: «L’unica soluzione a questa follia è parlarsi», dice Ariella Giniger del gruppo Women Wage Peace
Tre giorni prima dell’orribile attacco di Hamas che lo scorso 7 ottobre ha infiammato con una violenza mai vista prima il Medio Oriente, Ariella Giniger si trovava in riva al Mar Morto per partecipare a una grande manifestazione di donne, israeliane e palestinesi, che chiedevano la pace. Oggi, Ariella è prostrata dal dolore. La sua cara amica Vivian Silver, che era con lei al corteo, è tra gli oltre duecento ostaggi trascinati via in quel sabato nero dai kibbutz in cui vivevano, al confine con Gaza, e la cui sorte è avvolta nell’incertezza. L’ultima notizia che ha di lei è un messaggio inviatole da Vivian durante l’attacco, mentre era nascosta in un armadio nella sua casa del kibbutz Be’eri per cercare di salvarsi la vita: «Stanno entrando, sto tremando». Poi più nulla.
Eppure, malgrado lo shock e le storie drammatiche che ascolta quotidianamente da amici e conoscenti che hanno vissuto l’uccisione o il rapimento di familiari, questa psicoterapeuta dai lineamenti elegantissimi nonostante sia già nonna di nipoti adolescenti – e nonostante le notti insonni – non ha mai parole di odio verso i palestinesi. Perché sa, anche oggi, che «la guerra porta solo altra guerra. L’unico modo per fermare questa follia è parlarsi». Proprio per questo, nel 2014, Ariella, insieme a Vivian e a un’altra manciata di donne israeliane, decise di fondare Women Wage Peace, cioè “le donne portano la pace”, un’associazione che accogliesse attiviste di qualunque fede e simpatia politica, ebree e arabe, accomunate dalla volontà di pretendere dai governanti un accordo di pace tra i due popoli in conflitto.
«Era appena finita l’operazione “Margine di protezione” a Gaza, a cui mio figlio più giovane aveva dovuto partecipare perché era un soldato di leva, e con queste altre madri abbiamo detto: “Mai più!”». Oggi, le attiviste di Women Wage Peace sono oltre quarantamila, il che fa dell’associazione il più grande gruppo pacifista del Paese. E, in questi anni, si sono impegnate in una serie di iniziative a tutto campo per sensibilizzare l’opinione pubblica, e soprattutto la politica, al valore del dialogo.
«Noi non proponiamo una soluzione prestabilita al conflitto, chiediamo che le parti si parlino per trovare un accordo che sia soddisfacente e dignitoso per entrambe», premette Ariella. «Ogni anno organizziamo un grosso evento: abbiamo promosso marce tra i territori israeliani e quelli palestinesi, un convegno rivolto in particolare alle più giovani, un presidio con le tende davanti alla residenza del primo ministro durante il quale abbiamo digiunato a turno perché ascoltasse le nostre richieste». E poi, ci sono le attività “ordinarie”: «Ogni settimana alcune decine di noi vanno alla Knesset, il Parlamento, per partecipare all’assemblea plenaria o alle sessioni delle specifiche commissioni che trattano temi rilevanti per i nostri obiettivi, in modo da fare pressione sui leader in merito alle istanze che ci stanno a cuore. Ormai ci conoscono bene, riconoscono i nostri abiti bianchi e la sciarpa turchese». L’altro fronte di azione è la sensibilizzazione della gente comune: «Abbiamo già organizzato centinaia di incontri, nelle scuole, ma anche negli insediamenti di coloni in Cisgiordania, per portare le storie di altri contesti, dalla Liberia all’Irlanda del Nord, in cui contro ogni aspettativa si è riusciti a raggiungere una riconciliazione. Diciamo: “Se ha funzionato lì, perché non dovremmo farcela anche noi?”».
Per Ariella, la chiave di tutto è la conoscenza reciproca. «Io ho molte amiche palestinesi che vivono in Israele – racconta – ma tra le mie conoscenti non è una cosa comune avere rapporti con arabi. Sono convinta che uno dei problemi di questo Paese sia proprio che le persone non comunicano tra di loro. Penso che noi ebrei dovremmo studiare l’arabo fin dal primo giorno di scuola, come gli arabi dovrebbero sapere bene l’ebraico, e in alcuni casi è già così».
Proprio in quest’ottica di incontro è nata, un paio di anni fa, la collaborazione tra Women Wage Peace e Women of the Sun, associazione fondata nel 2021 da un gruppo di palestinesi a Betlemme, in Cisgiordania, per incoraggiare il protagonismo femminile e sostenere la pace. «Ammiro molto il loro impegno – commenta Ariella -: non è facile essere un’attivista, e un’attivista per la pace, nella società palestinese. Queste donne si espongono e sono molto coraggiose». Donne come Reem Hjajara, la fondatrice del movimento, madre di tre figli giovani, di cui una ragazza diciottenne: «Voglio che vivano una vita migliore della mia – ha dichiarato -. Non penso solo a mia figlia, ma a tutta la comunità». O come Layla Alsheikh, che dodici anni fa perse suo figlio di sei mesi, intossicato dal fumo dei lacrimogeni, perché l’esercito israeliano le impedì di attraversare un check point per raggiungere un ospedale, e che nonostante tutto è riuscita a elaborare il lutto ed è impegnata per la riconciliazione. Questi due gruppi, che dovrebbero stare sui due fronti opposti della barricata, condividono l’urgenza di un maggiore coinvolgimento della componente femminile nella risoluzione dei conflitti. Spiega Ariella: «Nel 2000, la Risoluzione 1.325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha imposto l’inclusione di negoziatrici donne nelle trattative di pace e nei processi decisionali. Ma siamo ancora lontani dall’obiettivo».
Eppure, le attiviste hanno trovato il modo di fare sentire la loro voce, insieme. Fisicamente, l’ultima volta è stata proprio il 4 ottobre, quando, chi vestita in turchese, chi con indosso l’hijab, si sono incontrate al muro di separazione tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania per sfilare insieme rivendicando la pace. «Abbiamo tenuto una grande manifestazione a Gerusalemme, davanti al monumento alla tolleranza, anche se diverse palestinesi non hanno potuto partecipare perché non avevano ottenuto il permesso per uscire dalla Cisgiordania. Anche loro, però, ci hanno raggiunte nella seconda tappa dell’evento, sul Mar Morto, dove, sulla spiaggia attorno a un simbolico tavolo negoziale, alla presenza di varie attiviste internazionali, abbiamo letto un documento condiviso chiamato “L’appello delle madri”, che chiede di fermare il circolo vizioso degli spargimenti di sangue. Tre giorni dopo, il mondo ci è crollato addosso». Oggi, i tragici fatti di cronaca spingono di nuovo queste donne su fronti opposti. Tra i civili israeliani di cui si sono perse le tracce durante gli attacchi di Hamas, oltre a Vivian Silver c’è Ditza Heyman, madre dell’attivista di Women Wage Peace Neta, mentre Orit Sela Svirsky, anche lei dell’associazione, è stata uccisa. Dall’altra parte, a Gaza è l’inferno – diecimila i morti nel primo mese di guerra, tra cui quattromila bambini – e in Cisgiordania la tensione è alle stelle e la violenza dei coloni israeliani è ormai fuori controllo.
Eppure, da migliaia di pacifiste, israeliane e palestinesi, non arrivano parole di odio. Racconta ancora Ariella: «Ditza, a cui è stata rapita la madre novantenne e che è una mia cara amica, sta soffrendo infinitamente e nonostante questo dolore mi ha detto: “Io continuo a credere nella pace, nel parlarci l’un l’altro».
In una dichiarazione diffusa nelle scorse settimane, le attiviste di Women Wage Peace scrivono: «Sentiamo continuamente parole di vendetta: “Spazzeremo via Gaza”, “agiremo brutalmente”. Ma non si può risolvere un’ingiustizia con un’altra ingiustizia». E ancora: «Ogni madre, ebrea e araba, dà alla luce i suoi figli per vederli crescere e fiorire e non per seppellirli. Ecco perché, anche oggi, nel dolore e nella sensazione che la fede nella pace sia crollata, tendiamo una mano pacifica alle madri di Gaza e della Cisgiordania».