Nel Paese devastato dalla guerra civile è nata una nuova comunità cristiana, che accoglie gli sfollati dalle aree più colpite. Il racconto di padre Robert Moe, missionario birmano del Pime rientrato nel suo Paese di origine dopo dodici anni
Ricostruire il mosaico etnico e sociale del Myanmar partendo dalla desolazione generata dalla guerra: è il compito che si è dato il birmano padre Robert Moe, classe 1979, missionario del Pime nella diocesi di Taunggyi, capoluogo dello Stato Shan, nella parte centro-orientale del Paese. A causa del conflitto civile, scaturito dal golpe militare del primo febbraio 2021 – quando il generale Min Aung Hlaing prese il potere spodestando la leader democratica Aung San Suu Kyi – centinaia di sfollati hanno abbandonato le loro abitazioni cercando rifugio nelle parrocchie, nelle chiese o nei templi buddhisti.
Molti giovani sono “andati in foresta”, si sono cioè uniti alla resistenza, composta dalle storiche milizie etniche (che dall’indipendenza nel 1948 combattono contro il governo centrale per ottenere maggiore autonomia) e dalle Forze di difesa del popolo, che fanno capo al governo di unità nazionale in esilio. Le milizie e le truppe dell’esercito accolgono tra i loro ranghi anche minorenni, a volte rimasti senza famiglia e nella maggior parte dei casi senza niente da fare perché, tra la pandemia e il conflitto, moltissimi, soprattutto nelle aree rurali, hanno smesso di andare a scuola. I medici e gli insegnanti che avevano fatto parte del Movimento di disobbedienza civile e avevano scioperato in segno di protesta contro il colpo di Stato rifiutandosi di lavorare come dipendenti pubblici del regime non possono ancora tornare al proprio impiego per timore di ritorsioni da parte dei militari. A causa delle sanzioni economiche il Paese è tornato a essere isolato sul piano internazionale e diplomatico. Privata del settore del turismo, l’economia è collassata, ma il regime continua a godere del sostegno della Russia, principale fornitore d’armi dell’esercito. Oltre a bombardare quasi quotidianamente le aree occupate dalle roccheforti dei gruppi prodemocrazia, i militari disseminano mine antiuomo intorno ai luoghi di culto e ai campi coltivati per impedire il ritorno dei civili e ridurli alla fame, in modo che non possano sostenere la resistenza. Secondo i dati delle Nazioni Unite gli sfollati interni sono circa 2 milioni, mentre 63 mila sono i profughi che hanno varcato i confini nazionali cercando rifugio in Thailandia o in India.
È in questo contesto tremendo che si inserisce la missione del Pime, il cui legame con la Birmania ebbe inizio più di 150 anni fa. Era il 1868 quando furono create le Chiese di Taunggyi e Keng Tung, oggi due delle cinque diocesi fondate dall’Istituto in Myanmar. Quando nel 1966 tutti i religiosi entrati prima dell’indipendenza vennero espulsi in nome della via birmana al socialismo, 29 missionari del Pime rimasero vicini alla popolazione, indipendentemente dalle conseguenze. Nonostante le successive dittature non abbiano mai permesso alla Chiesa locale di respirare a pieni polmoni, il legame tra il Pime e la Birmania (rinominata Myanmar nel 1989) non è mai venuto meno: nel decennio di aperture democratiche guidato da Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, ci fu un rinnovamento del clero locale al quale contribuirono con gli insegnamenti teologici in seminario anche i sacerdoti del Pime. Padre Robert, ordinato prete nel 2010 dopo aver studiato al seminario di Monza, viene da questa esperienza, un sacerdozio frutto di quei semi piantati dai primi missionari che per il popolo birmano hanno anche donato la vita.
Rientrato in patria dopo 12 anni di missione in Papua Nuova Guinea, padre Robert, che appartiene all’etnia kayah, era sotto shock: «La mia famiglia mi aveva detto di non tornare – racconta -, ma non mi aspettavo tutta questa devastazione». Il sacerdote si è unito alle missioni del Pime già presenti a Yangon e Taunggyi trasferendosi in mezzo al verde dello Stato Shan, che oggi accoglie sfollati dalle regioni circostanti, perlopiù provenienti da Moe Bye, Demoso e Loikaw. Quest’ultima, capoluogo dello Stato Kayah, circa 150 chilometri più a sud di Taunggyi, prima della guerra contava oltre 50 mila abitanti, ma negli ultimi due anni a causa dei frequenti attacchi aerei da parte del regime birmano è stata ridotta a una città fantasma.
I profughi sono arrivati dopo aver perso il lavoro, la casa, gli affetti e il futuro. Padre Robert non aveva molto chiaro quale fosse il modo migliore per stare loro vicino, però gli venne un’idea dopo aver sentito che molti si lamentavano per la mancanza di una guida spirituale. Nel settembre 2022 il missionario chiese al vescovo di Taunggyi di potersi prendere cura di circa 400 famiglie che si erano raggruppate nel villaggio di Non Boong. Rifugiati cristiani che, sebbene di diversa provenienza e appartenenza etnica, con la loro sola presenza hanno dato vita a una nuova comunità che forse, spera padre Robert, potrebbe un giorno diventare una parrocchia. Un insieme di individui specchio del mosaico che compone il Myanmar, sfollati ma che di fatto non lo sono più: «Provengono soprattutto da Loikaw e da Stati a maggioranza cristiani, ma ognuno parla la propria lingua», spiega il missionario, che per celebrare la Messa usa la lingua madre, il kayah, che però «non è compreso bene da tutti. Oppure – spiega ancora – i canti per le celebrazioni sono tutti diversi e bisogna impararli di nuovo». Quello della comunità di Non Boong è quindi un nuovo esperimento di convivenza, soprattutto perché, a differenza degli Stati birmani a maggioranza cristiana, lo Shan è abitato per la maggior parte da buddhisti. «Viviamo all’ombra di una grande pagoda e cerchiamo di collaborare con i monaci, con cui condividiamo il cibo e le donazioni. I cristiani di Loikaw hanno una fede fiera ed espressiva, vengono da una città dove sono quasi tutti cristiani, ma qui – sottolinea il sacerdote – è importante mantenere un basso profilo».
Infatti le visite da parte dell’esercito sono quotidiane: i militari fanno irruzione anche nel cuore della notte cercando una scusa qualunque per radere al suolo tutto, anche se i missionari e i residenti locali non hanno nessuna colpa. «Vogliamo stare tranquilli ma c’è molta pressione», commenta padre Robert. Tra la popolazione è diffuso il timore della presenza di spie: «Nessuno si fida degli altri, perché non puoi mai sapere con certezza da che parte stia la persona che hai davanti. Coloro che hanno partecipato ai movimenti di protesta dopo il colpo di Stato, invece, hanno paura di essere identificati. C’è diffidenza, ma anche così proviamo a camminare insieme».
Con tutti i limiti delle circostanze, il missionario del Pime non solo cerca di rispondere ai bisogni spirituali della comunità, ma anche a quelli materiali: «Le persone sono arrivate senza niente, per cui il primo passo è cercare di acquistare un terreno. Per fortuna qui c’è molto spazio disponibile. Finora abbiamo costruito qualche casa e una sala che serve per le celebrazioni e gli incontri». In una piccola stanza della semplice struttura in legno dorme anche padre Robert dopo aver fatto visita alle famiglie e aver aiutato nella realizzazione delle abitazioni. «Vado in giro, parlo e mangio con loro. Alcune famiglie vivono ancora in tenda in un grande parco. È ancora troppo presto per tenere corsi, per esempio, ci vuole pazienza».
Per la stessa popolazione impegnare la giornata è ancora complicato. «La maggior parte delle persone è alla ricerca di lavoro. Alcuni lavorano a giornata, ma tanti non possono spostarsi e passano il tempo senza fare niente. Ogni tanto qualche organizzazione porta del cibo, ma è una vita di sopravvivenza. Mentre i bambini non vogliono andare alle scuole gestite dalla giunta militare, per cui qualcuno insegna nel villaggio, altri studiano in parrocchia o nella casa delle suore», spiega ancora il sacerdote birmano. Eppure, anche se con fatica, la comunità sta fiorendo: «Stiamo cercando di rimettere insieme i pezzi. Tra gli sfollati ci sono ex catechisti o presidenti di varie associazioni, come l’Azione Cattolica. Non molto tempo fa abbiamo celebrato la cresima e la prima comunione di una cinquantina di bambini con il vescovo di Taunggyi». Può sembrare poco «ma è meglio fare poco che non fare niente», aggiunge padre Robert, che appena tornato si era sentito straniero nella sua stessa terra: «Non avevo mai fatto servizio pastorale in Myanmar – dice -. Oltre allo shock iniziale ho provato paura, credevo di non poter fare niente perché i problemi e i bisogni della popolazione sono troppi. È stato grazie al sostegno dei miei confratelli se ho trovato la forza di restare e continuare a camminare con la comunità di Non Boong. È un’esperienza difficile e un processo che richiede tempo, ma ci farà crescere tutti».
Nessuno sa che piega prenderà la guerra civile, ma tutti danno per certo che durerà ancora a lungo. Le milizie etniche che combattono contro la giunta militare non sono più unite come subito dopo il colpo di Stato e se anche dovessero prevalere sull’esercito è difficile immaginare che non entrino in conflitto tra di loro per il controllo dei territori, molti dei quali ricchi di risorse come metalli rari, pietre preziose e legname. Anche il governo di unità nazionale in esilio ha perso credibilità agli occhi della popolazione, mentre Aung San Suu Kyi si trova in prigione da oltre due anni dopo essere stata incriminata dalla giunta militare con false accuse. La comunità di Non Boong potrebbe quindi essere il perfetto esempio a cui guardare per ricostruire il futuro del Myanmar, un mosaico in cui le tessere sono state buttate all’aria e devono essere rimesse insieme, un posto in cui diverse etnie e religioni trovano spazio in armonia l’una accanto all’altra (se le condizioni politiche lo permetteranno). Padre Robert ha già scelto il nome della parrocchia: «Vorremmo dedicarla alla Madonna Regina degli apostoli, perché ci siamo accorti che nella diocesi nessuna chiesa è stata dedicata alla Madre di Dio». Un pezzetto di collage che mancava.
Il Pime in Myanmar
I primi quattro missionari (Eugenio Biffi, Rocco Tornatore, Tancredi Conti e Sebastiano Carbone) di quello che ancora si chiamava Seminario lombardo per le missioni estere arrivarono a Taungoo nel 1868 per raggiungere poi le regioni al di là del fiume Salween, che divide la Birmania centrale da quella orientale. La presenza missionaria in Myanmar è costata al Pime la vita di cinque missionari, uccisi tra il 1950 e il 1953; tra loro padre Mario Vergara, beatificato nel 2014 insieme al suo catechista Isidoro Ngei Ko Lat, primo martire della Chiesa del Myanmar, che si sono uniti ai beati Paolo Manna, fondatore della Pontificia unione missionaria, e Clemente Vismara, scomparso nel 1988 dopo oltre 65 anni trascorsi nei villaggi della foresta. Dopo la confisca dei beni ecclesiastici, nel 1966 tutti i missionari arrivati prima dell’indipendenza del 1948 vennero espulsi. L’ultimo tra i 29 che rimasero in Myanmar fu padre Paolo Noè, morto a Hwari nel 2007 dopo 59 anni trascorsi tra gli shan e i karen, nelle aree inaccessibili agli occidentali per via della guerra tra il governo centrale e gli indipendentisti locali.