Le stelle più lontane, l’ultima periferia

Le stelle più lontane, l’ultima periferia

Padre Richard D’souza, gesuita indiano della Specola vaticana e astrofisico: «Studiando l’origine delle galassie comprendo e contemplo la bellezza dell’universo»

«Viviamo in un momento privilegiato per scrutare la storia dell’universo: la scienza oggi è in grado di portarci anche in periferie lontane miliardi di anni». È una missione decisamente particolare quella di padre Richard D’Souza. Quarantasei anni, cresciuto in una famiglia cristiana di Goa in India, ha come orizzonte le stelle più lontane dal nostro sistema solare. Superiore della comunità dei gesuiti della Specola vaticana, è un astrofisico con alle spalle un dottorato di ricerca al Max Planck Institute di Monaco e ulteriori studi all’Università del Michigan.

«Il mio ambito di ricerca sono le origini delle galassie: in pratica sono un archeologo delle stelle – spiega -. Studio come sono nate e come cambiano nel tempo, attraverso indizi che ci rivelano fenomeni accaduti miliardi di anni fa. Come si formano le stelle e come le diverse galassie si attraggono fino a fondersi tra loro. Sappiamo per esempio che la Via Lattea, all’interno della quale noi tutti viviamo, sta attirando altre due galassie: tra due o tre miliardi di anni saranno una realtà unica. Attraverso modelli matematici proviamo a capire che cosa questo comporterà».

Tutto iniziò dalla passione per la scienza di un ragazzino indiano che aveva tanti amici tra i gesuiti. «Ero affascinato dai racconti sugli studi di Matteo Ricci e di altri confratelli – racconta -. Così, finito il noviziato, la mia provincia mi ha mandato a studiare fisica a Mumbai». Un passo dopo l’altro, il suo percorso è arrivato fino alla Specola vaticana, l’osservatorio che accanto alla sede di Castel Gandolfo oggi può contare anche su un avanzatissimo telescopio sul monte Graham in Arizona, negli Stati Uniti. Tra le due sedi vi lavorano quindici gesuiti di diverse nazionalità, tra cui anche un confratello congolese.

«L’interesse della Chiesa per il cielo è qualcosa di molto antico – commenta padre D’Souza -, pensiamo all’importanza che ha avuto l’osservatorio vaticano per l’elaborazione dei calendari e la definizione della data della Pasqua. Ma quando con la perdita del controllo politico su Roma si pose la questione di rifondare la Specola, Leone XIII affidò a questa istituzione il compito specifico di far dialogare tra loro scienza e fede. Ed è quanto facciamo ancora oggi».

«Se guardo alle nostre giornate – continua il gesuita indiano – direi che il 70% del nostro lavoro è rivolto alla ricerca: portiamo avanti i nostri studi, partecipiamo a congressi, collaboriamo con gli altri osservatori. Troviamo ovunque grande apertura nei nostri confronti. La parte più difficile, forse, è proprio l’altro 30%: il tempo che dedichiamo alle attività per ricordare alla Chiesa che la scienza non è un mondo ostile. Su questo ci portiamo dietro ancora tanti sospetti e resistenze».

Che cosa dice alla fede la vostra ricerca sulle galassie? «Non guardiamo il cielo per indagare Dio – risponde padre Richard – ma la realtà dell’universo. Più ragioniamo sulla complessità della creazione e più ci rendiamo conto della sua bellezza. Anche se in un certo senso lavoriamo per offrire motivi sempre nuovi per lodare Dio attraverso una migliore comprensione della sua opera».

«Noi non studiamo ambiti scientifici che hanno ricadute immediate – continua ancora il gesuita astronomo – come possono essere l’ecologia o la climatologia. Cerchiamo invece di dare delle risposte alle domande più profonde che l’umanità si porta dentro: da dove veniamo? Qual è il nostro posto nell’universo? Possiamo anche provare a immaginare la fine del nostro sole, spingendoci molto avanti nel tempo. E tutto questo affascina a ogni latitudine. Quando ero in Kenya ho provato a far guardare ai ragazzi di una baraccopoli gli anelli di Saturno: lo stupore e le domande che generano queste osservazioni sono le stesse ovunque».

Tra le grandi domande che da sempre sorgono scrutando il cielo ce n’è una che secondo padre D’Souza diventerà centrale in un arco di tempo non troppo lontano: «Siamo soli nell’universo? Oggi abbiamo strumenti nuovi per provare a dare una risposta, perché stiamo facendo grandi progressi nell’indagine su quanto esiste fuori dal sistema solare. Studiamo ormai l’atmosfera di questi pianeti e sono convinto che entro vent’anni avremo l’evidenza della presenza di forme di vita in qualcuno dei miliardi di stelle di cui conosciamo l’esistenza. Oggi non possiamo ancora dirlo per certo, ma ci sono tutte le condizioni perché questo succeda. Parliamo ovviamente di forme di vita elementari, molecole; ma se esistono non si può escludere la possibilità di uno sviluppo in forme di vita intelligente. Una scoperta del genere che cosa significherebbe? E come porla in rapporto alla Rivelazione? Ho l’impressione che la teologia presto si ritroverà a fare i conti con domande simili a quelle poste dalla scoperta dei “nuovi mondi” al di là dell’Oceano…».

Nel frattempo, però, l’astronomia deve confrontarsi anche con questioni molto più terra terra: lo sfruttamento esponenziale delle risorse rischia infatti di creare problemi anche in questo ambito. «La proliferazione di satelliti utilizzati per le connessioni internet rischia di tornare a nascondere il cielo – racconta padre D’Souza -. Non solo quelli di Elon Musk: ci sono anche altre società concorrenti che stanno entrando in questo mercato, ciascuna con centinaia di satelliti che devono ruotare a una certa velocità nella parte bassa dell’atmosfera. Diventeranno molti di più di quelli per le telecomunicazioni, lasciando tracce che inquinano pesantemente i segnali radio captati dai telescopi. È una grande minaccia per il nostro lavoro».