A dieci anni dalla firma della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, milioni di nativi nel mondo sono ancora in pericolo, minacciati da progetti di sviluppo che toccano le loro terre. Eppure, affrontando le questioni ambientali in prima linea, gli indigeni potrebbero essere un alleato prezioso per la valutazione e l’attuazione di politiche climatiche
Hanno da festeggiare un anniversario importante, ma preferiscono farlo continuando a discutere riguardo ai temi che stanno loro a cuore. La Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, firmata nel 2007 nelle stanze del Palazzo di vetro dell’Onu, compie dieci anni e proprio per rendere omaggio a quel documento storico che per la prima volta riconosceva il diritto a proprie istituzioni, culture e tradizioni a 370milioni di autoctoni nel mondo, i mille rappresentanti del Forum permanente delle Nazioni Unite per le popolazioni indigene si sono ritrovati a New York.
La XVI sessione del Forum istituito nel 2000 – che si terrà fino al 5 maggio – mette sul piatto diversi temi legati allo sviluppo economico e sociale, la cultura, l’ambiente, l’istruzione, la salute e i diritti umani: tutte questioni da affrontare con un maggior dialogo tra rappresentanti delle popolazioni indigene e Stati membri delle Nazioni Unite.
L’assistente generale ONU per lo Sviluppo Economico, Lenni Montiel ha dichiarato all’assemblea che le popolazioni indigene continuano a soffrire in modo sproporzionato la povertà, la discriminazione e l’assistenza sanitaria; mentre il vice direttore esecutivo di UN Women, Lakshmi Puri, ha sottolineato l’importanza mettere a conoscenza donne e ragazze indigene dei loro diritti.
Pur non essendo giuridicamente vincolante a livello di diritto internazionale, la Dichiarazione con i suoi 46 articoli ha contributo a modellare leggi e politiche in tutto il mondo, fornendo uno strumento di riferimento per soddisfare i diritti delle popolazioni indigene all’autodeterminazione, alla terra e al riconoscimento della cultura. Grazie al documento, per esempio, in Ecuador i programmi scolastici sono stati riscritti per rispecchiare le culture e le lingue indigene del Paese; mentre il Brasile – Paese che ospita 300 diversi gruppi indigeni per un totale di circa 1 milione di persone – ha inserito nella Costituzione tutele specifiche e ha creato più di 3000 scuole per nativi.
Nonostante questi progressi, rimane ancora molto da fare: da un lato per la mancanza di fondi per la realizzazione di programmi ad hoc, dall’altro per la cattiva volontà da parte di governi e aziende private di garantire queste popolazioni. Dal Nepal al Messico, infatti, sono ancora tanti gli indigeni che lottano per i propri diritti ma anche per quelli dell’ambiente comune. Nel 2016, più di 200 difensori di diritti umani sono stati uccisi, la metà dei quali difendevano proprio la terra. Nella riserva americana Standing Rock, per esempio, i nativi Sioux qualche mese fa protestarono per la costruzione del Dakota Access Pipeline, l’oleodotto che attraversa le terre sacre della tribù, ma l’industria estrattiva responsabile del progetto non è stata fermata. Proprio per rendere consapevole le imprese private dei principi della Dichiarazione, il Forum propone l’inclusione di informazioni sui diritti dei popoli indigeni nei programmi delle scuole d’economia.
A mettere in guardia rispetto alla situazione, è anche il rapporto annuale dell’associazione International Work Group for Indigenous Affairs (IWGIA) che evidenzia come la dignità e la sopravvivenza di 370 milioni di indigeni in tutto il mondo sia in pericolo in quanto strettamente legata alla corsa per le risorse naturali globali. Sempre più progetti di sviluppo energetici come la costruzione di dighe idroelettriche e di turismo minacciano i popoli nativi che – nonostante le proteste – nella maggior parte dei casi sono costretti allo sgombero forzato, quando non sono arrestati, minacciati o uccisi.
Uno studio pubblicato pochi giorni fa dall’ILO (International Labour Organization) riconosce proprio alle popolazioni indigene un ruolo centrale nella questione dei cambiamenti climatici. Penalizzati in prima persona dalle conseguenze dell’effetto serra, i popoli indigeni affrontano in prima linea il cambiamento climatico, anche mettendo a repentaglio la propria vita. Per questo e per le loro conoscenze tradizionali del territorio, i nativi possono contribuire alle politiche ambientali e dovrebbero essere tenuti in considerazione come esperti nell’attuazione di misure specifiche sul tema.
Gli stessi temi sono stati d’altronde toccati più volte da papa Francesco e ripresi qualche giorno fa da monsignor Bernardito Auza, nunzio apostolico e osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite che a New York ha ricordato che la terra non è una merce ma un dono di Dio ma che, ciò nonostante, in varie regioni del mondo aumentano le pressioni per progetti agricoli e minerari che non tengono contro della necessità di preservare le tradizioni e le culture dei popoli indigeni che ci vivono.
In questo quadro, si capiscono dunque le parole dell’assistente del Segretario Generale per i diritti umani, Andrew Gilmour che ha dichiarato: «La lotta è tutt’altro che finita. Anche se la dichiarazione è stata approvata 10 anni fa, molti degli ostacoli che hanno portato alla sua entrata in vigore sono ancora presenti oggi. L’adesione ai suoi principi non equivale all’azione».
«Non ci sono problemi in cui non dovrebbero essere coinvolte le popolazioni indigene» ha aggiunto, parlando al Forum, Morales presidente della Bolivia – oggi Stato plurinazionale; il quale, in virtù dei modi di organizzazione e produzione, ha poi definito i nativi la «bussola morale dell’umanità». Proprio il senso di responsabilità, di comunità e solidarietà intergenerazionale è stato ricordato anche da monsignor Auza che ha citato le comunità indigene ad esempio che «merita non solo il nostro rispetto, ma anche gratitudine e sostegno».