Nel film “Tatami” dell’israeliano Guy Nattiv e dell’iraniana Zahra Amir Ebrahimi, si racconta la storia di una campionessa di judo dell’Iran costretta ad abbandonare la competizione perché Teheran impedisce ai suoi atleti di gareggiare contro avversari di Israele. Nelle sale italiane dal 4 aprile
Siamo a Tbilisi, in Georgia, in occasione dei campionati mondiali di judo. Leila, campionessa iraniana, è determinata a vincere la medaglia d’oro. Da casa a Teheran, il marito Nader con il figlio Amir e gli amici seguono in televisione i combattimenti e fanno il tifo per lei. Leila passa da una vittoria all’altra, sostenuta dalla sua allenatrice Maryam, ex campionessa che si è dovuta ritirare per un infortunio e che ha investito tutte le sue energie nella carriera della sua pupilla. Pur combattendo con l’hijab, come prescrive lo stato islamico dell’Iran, Leila sembra l’immagine della nuova donna iraniana. Ma d’improvviso, il sogno si infrange: una telefonata da Teheran impone a Maryam di fermare la sua atleta, fingendo un incidente. C’è infatti il rischio che Leila debba affrontare la campionessa di judo israeliana, cosa assolutamente vietata dalle autorità iraniane. E qui si scatena il dramma: la ragazza rifiuta di ritirarsi. I servizi segreti iraniani arrestano i genitori, mentre marito e figlio sono costretti a fuggire oltreconfine. Anche la famiglia di Maryam è minacciata: se l’allenatrice non riuscirà a fermare l’atleta, le conseguenze saranno molto gravi pure per lei…
Questa storia è al centro del film “Tatami” di Guy Nattiv e Zahra Amir Ebrahimi, presentato a Venezia lo scorso anno e dal 4 aprile nelle sale italiane. Andatelo a vedere anche se non vi interessa il judo: lo sport serve a raccontare una storia che tratta di diritti umani e di libertà delle donne nella Repubblica islamica dell’Iran.
Guy Nattiv, regista e co-sceneggiatore con l’iraniana Elham Erfani che vive a Parigi, è israeliano. Colpito dalla vicenda di Sadaf Khadem, la pugile iraniana che combattè nel 2019 senza hijab e che non tornò in Iran per evitare l’arresto, Nattiv inizia a indagare sulle atlete di quel Paese. E scopre anche la storia della campionessa di taekwondo Kimia Alizadeh, bronzo iraniano alle Olimpiadi di Rio nel 2016, che nel 2020 dovette fuggire in Germania, entrando nel team olimpionico dei rifugiati. Insomma, lo spirito sportivo, che dovrebbe incoraggiare la pace e la comprensione fra i popoli, in Iran non è di casa. Molti atleti, uomini e donne, hanno dovuto lasciare il Paese, non perché non amassero la loro patria, ma perché gareggiare secondo i dettami del regime rendeva la loro vita troppo difficile.
Per la realizzazione di “Tatami” – il titolo è il nome giapponese del materassino su cui si pratica il judo – Nattiv ha coinvolto Zahra Amir Ebrahimi, attrice e regista iraniana, miglior interprete a Cannes nel 2022 con “Holy Spider” . Anche Zahra, nota come Zar, ha dovuto andarsene dall’Iran nel 2008, e ora è cittadina francese. Così, per la prima volta, un regista israeliano e una regista iraniana hanno lavorato insieme, finendo per diventare amici. Zar ha raccontato di aver avuto dei dubbi iniziali a collaborare. Anche se vive all’estero, un film del genere girato con un collega israeliano la rendeva un bersaglio per i servizi segreti iraniani. Alla fine, ha deciso di prendersi il rischio.
Il film è stato girato a Tbilisi, in Georgia, che è uno dei centri più importanti per il judo al mondo. Zar Amir si è occupata anche del casting e nel film interpreta l’allenatrice Maryam, divisa fra il terrore di disubbidire agli ordini del regime e il desiderio di veder vincere la sua atleta.
“Tatami” narra una storia di fantasia, anche se a ispirarlo sono state le vicende reali di alcune atlete iraniane. C’è da chiedersi se veramente lo stato iraniano vieti ai suoi campioni di incontrare quelli israeliani, e perché. Anche in questo caso, Nattiv e Ebrahimi hanno lavorato su una situazione reale. Il divieto di battersi con gli israeliani è stato sancito anche dalla massima autorità, l’ayatollah Alì Khamenei. Come riportato da France 24, nel settembre 2021, in un suo messaggio ha ribadito che non è possibile praticare sport competitivi con gli israeliani perché l’Iran non riconosce Israele, quindi gli atleti iraniani non possono gareggiare con cittadini di questo Paese. Se capita, ai campioni iraniani viene ingiunto di ritirarsi dall’incontro o di non partecipare. Esattamente come avrebbe dovuto fare Leila nel film. Ovviamente il rischio è di finire sanzionati dalle federazioni internazionali che condannano questo comportamento come contrario allo spirito sportivo e olimpico, ma si rientra a Teheran da eroi. Non tutti sono d’accordo, però. Per esempio, nel settembre 2023, il sollevatore di pesi iraniano Mostafa Rajael, argento ai campionati in Polonia, ha stretto la mano al collega israeliano Maksim Svirsky, vincitore del bronzo. Un gesto che rappresenta l’empatia e i valori positivi che lo sport incarna, ma che non è piaciuto alla Federazione iraniana cui apparteneva, che l’ha subito sospeso, vietandogli a vita di partecipare a qualsiasi competizione. Carriera stroncata, insomma. Con lui, è stato licenziato anche il responsabile della delegazione iraniana.
Una stretta di mano infrange il divieto di interagire direttamente con gli israeliani, un atto che è «contro il sacro sistema della Repubblica Islamica». Khamenei è stato chiaro, parlando agli atleti iraniani alle Olimpiadi di Tokyo (fonte: France 24): «Nessun iraniano degno di questo nome, può stringere la mano a un rappresentante del regime criminale per vincere una medaglia». Sul suo sito ufficiale ha poi specificato: «Il regime sionista illegittimo e assetato di sangue cerca di ottenere legittimità prendendo parte agli eventi sportivi internazionali». Khamenei offre sostegno di carattere legale agli atleti di altri Paesi islamici che seguono la sua linea. Qualcuno lo fa: il campione di judo algerino Fethi Nourine nel 2020 a Tokyo si è ritirato per non incontrare il collega israeliano, dichiarando: «Abbiamo lavorato duro per qualificarci, ma la causa palestinese è più grande di questo».
Un altro campione di judo iraniano, Saeid Mollaei, nel 2019 ha ricevuto l’ordine dalle autorità di perdere un incontro per evitare la finale sul tatami con il rivale israeliano Sagi Muki. Mollaei ha lasciato l’Iran e alle Olimpiadi di Tokyo ha gareggiato per la Mongolia, Paese che l’ha accolto, vincendo la medaglia d’argento. Insomma, la storia di Leila è molto vicina alla situazione di tanti atleti iraniani.
In più, è anche una storia di diritti femminili: lo sport è uno strumento per affermarsi in un Paese in cui le donne sono ancora più vittime del regime rispetto agli uomini. Il momento in cui Leila toglie il suo hijab e gareggia con i capelli finalmente liberi ricorda Mahsa Amini e il suo triste destino, ma anche il sostegno che i giovani iraniani le hanno tributato. C’è voglia di voltare pagina, malgrado la repressione. Il film ci mostra un marito che collabora occupandosi del figlio perché Leila possa dedicarsi alla sua carriera sportiva, raccontandoci che c’è anche un Iran diverso da quello voluto dal potere.