«La mia lotta contro l’arma dello stupro»

«La mia lotta contro l’arma dello stupro»

Grazie alla sua testimonianza, per la prima volta lo stupro è stato riconosciuto come crimine di guerra e atto di genocidio. Oggi la ruandese Godelieve Mukasarasi continua ad aiutare le donne che hanno subito violenza, ma anche i figli che sono nati da quegli abusi

La sua testimonianza fu fondamentale per far condannare uno dei responsabili del genocidio dei tutsi del Ruanda. Non solo, per la prima volta nella storia, lo stupro venne riconosciuto come reato di genocidio. Godelieve Mukasarasi, che a quell’orribile pagina della storia è sopravvissuta per miracolo, ha pagato caro il suo coraggio. Ma non si è mai arresa. Da trent’anni – da quando cioè nel 1994 oltre 800 mila persone sono stata barbaramente massacrate nel suo Paese – non ha mai smesso di battersi per la verità e la riconciliazione, ma anche per ritessere i tessuti così barbaramente lacerati della società ruandese. A cominciare dalle donne.

Secondo l’Onu, tra le 250 e le 500 mila vennero brutalmente violentate. Tra di loro anche la figlia di Godelieve. Mentre il marito e un’altra figlia di 12 anni vennero uccisi nel 1996, perché, come lei, avevano deciso di testimoniare di fronte al Tribunale penale internazionale per il Ruanda stabilito ad Arusha, in Tanzania. Nonostante quest’ennesimo lutto familiare e le minacce che lei stessa ha ricevuto, non si è tirata indietro. E, insieme a quattro altre persone, ha testimoniato nel caso inaugurale contro il sindaco della sua cittadina responsabile di aver redatto le liste delle persone da uccidere e di aver incitato a massacrare i tutsi e a violentare le donne. Il Tribunale ha condannato il sindaco all’ergastolo, ritenendolo colpevole di genocidio. Non solo. Per la prima volta i giudici hanno riconosciuto lo stupro e la violenza sessuale con l’intento di distruggere un particolare gruppo come atto di genocidio. La sentenza pronunciata nell’ottobre 1998 ha creato un precedente importante nel diritto internazionale.

«Ho sempre vissuto e operato in un contesto rurale e con pochi mezzi – racconta Godelieve che nei giorni scorsi è stata ospite del Festival della pace di Brescia -, ma la mia testimonianza ha avuto un impatto molto importante non solo per il mio Paese, ma anche a livello mondiale sulla questione della violenza sessuale sulle donne. Ho aiutato a denunciare le ingiustizie, specialmente quelle commesse contro le donne, e a riconoscerne la dignità».

Da allora, Godelieve non ha mai smesso di lottare. Da allora, Godelieve non ha mai smesso di lottare. Per il suo impegno e il suo coraggio ha ricevuto molti premi a livello internazionale, tra i quali lo Human Rights International Award nel 2011 e l’International Women of Courage Award nel 2018. Con la sua associazione Sevota, creata pochi mesi dopo la fine del genocidio, ha assistito e accompagnato più di 70 mila persone, soprattutto donne, proponendo occasioni di formazione e sensibilizzazione, percorsi di guarigione della memoria e dei traumi, ma anche iniziative concrete per creare gruppi di auto aiuto e attività generatrici di reddito. Con un’attenzione particolare alle moltissime vedove e alle donne, spesso giovanissime, vittime di stupro, molte delle quali erano rimaste incinte dei loro aguzzini. «Almeno il 70% – racconta – si sono scoperte sieropositive e a quel tempo non solo non c’erano medicinali accessibili per curarsi, ma l’Aids rappresentava un terribile tabù. Queste donne erano doppiamente stigmatizzate e marginalizzate». Secondo un rapporto dell’ONU del 1996, non solo lo stupro è stato utilizzato sistematicamente come arma di guerra, ma «i miliziani hanno utilizzato il virus dell’Aids per trasmettere successivamente la morte».

«Oggi – continua Godelieve – continuiamo a occuparci di queste donne, ma soprattutto dei figli nati dalle violenze, spesso rifiutati sia dalle stesse madri che dalla famiglia allargata, che spesso era stata sterminata da chi le aveva messe incinta. Quei neonati sono ormai giovani di trent’anni, che spesso abbiamo aiutato a studiare, a trovare un lavoro e a costruirsi una famiglia, affinché anche loro possano trovare un posto nel Ruanda di oggi che cerca di consolidare i processi di unità e riconciliazione».

Lei stessa – che ha 65 anni – continua a impegnarsi in questo lungo e faticoso cammino, promuovendo continuamente nuove iniziative. Una delle ultime è la creazione di un Giardino dei Giusti, in collaborazione con la Fondazione Gariwo-la foresta dei Giusti di Milano che ha riconosciuto la stessa Godelieve in quello del Monte Stella. In quello ruandese, invece – inaugurato lo scorso luglio in occasione del trentennale del genocidio -, c’è anche un italiano, il console onorario Pierantonio Costa, che riuscì a portare in salvo almeno duemila persone, mettendo a rischio la sua stessa vita. Lui, come altri, e come la stessa Godelieve hanno tenuta accesa – e continuano a farlo – una luce di bene e di vita nell’oscurità del male e della morte.

Non solo Ruanda

Lo stupro come arma di guerra è stato sistematicamente utilizzato in molte epoche e contesti. E spesso sottovalutato. Il corpo delle donne è stato usato – e continua a esserlo – come campo di battaglia e strumento di conquista. Un’arma per ferire, brutalizzare, disumanizzare, fare a brandelli le singole persone e il tessuto sociale, con conseguenza che si trascinano inevitabilmente per decenni.

I casi più recenti, riguardano la guerra nell’ex-Jugoslavia, dove a partire dal 1991, la pratica dello stupro accompagnò tragicamente il conflitto che fece a pezzi quell’area dei Balcani e il corpo di migliaia di donne. Anche in quer caso, il Tribunale penale internazionale appositamente costituito emise sentenze storiche. Che tuttavia non impedirono che simili reati venissero commessi altrove.

Un caso drammaticamente emblematico è quello dell’Est della Repubblica del Congo, dove dopo il genocidio ruandese si riversarono oltre un milione di profughi. Da allora, queste regioni continuano a essere destabilizzate anche per la presenta di centinaia di gruppi ribelli e per lo sfruttamento indiscriminato delle ingenti risorse minerarie. In quasi trent’anni centinaia di migliaia di donne congolesi sono state violentate. Nella totale impunità e nonostante le molte testimonianze sia delle vittime che di persone che operano sul campo, come il dottore Denis Mukwege dell’ospedale Panzi di Bukavu (Sud Kivu), che per il suo lavoro e per le sue denunce è stato insignito del Premio Nobel per la pace nel 2018.

Simili situazioni di violenza e impunità si verificano oggi in molti altri contesti di conflitto come Myanmar, Siria, Sudan, Colombia, Haiti, Ucraina e altri ancora.

Nel 2007, le Nazioni Unite hanno varato lo UN Action Against Sexual Violence in Conflict, con l’obiettivo di contrastare la violenza sessuale nei conflitti attraverso azioni di prevenzione, protezione dei sopravvissuti e perseguimento dei responsabili. L’anno successivo il Consiglio di sicurezza ha approvato una risoluzione con cui si riconosce per la prima volta lo stupro nei conflitti come una minaccia al perseguimento della pace e della sicurezza tra i popoli e ha creato la figura di un Rappresentante speciale il cui ufficio ha il compito di rafforzare i meccanismi per contrastare la violenza sessuale nei conflitti armati sia a livello locale che globale.

Un tema cruciale è quello dell’impunità: sia perché molte vittime non denunciano (si stima che solo una donna su dieci o venti, a seconda dei contesti, lo faccia), sia perché i sistemi di giustizia spesso non sono adeguati o efficienti.

Di fondo, però, c’è ancora un’atavica questione legata alle diseguaglianze di genere e alle molte e varie situazioni di discriminazione e marginalizzazione che le donne subiscono ovunque nel mondo, rendendole più vulnerabili a varie e spesso gravissime forme di violenza.