Le monache buddhiste dell’Himalaya dell’ordine Drukpa – che praticano arti marziali – sono tra le finaliste del premio Václav Havel per i Diritti Umani 2020. Insegnano l’autodifesa alle giovani ragazze, portano aiuti umanitari ai villaggi colpiti dai disastri naturali, lottano contro la tratta di esseri umani e sostengono l’uguaglianza di genere
Ogni anno l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in collaborazione con la Biblioteca Václav Havel e la Fondazione Charta 77, assegna il premio Václav Havel per i Diritti Umani. Il premio è destinato a ricompensare reltà della società civile attive per difesa dei diritti umani nel mondo e porta il nome di Václav Havel, romanziere e dissidente del regime comunista, che è stato Presidente della Cecoslovacchia prima e della Repubblica Ceca dopo la scissione. Per l’edizione 2020, slittata a causa della pandemia e il cui vincitore sarà annunciato in aprile, tra i tre finalisti figurano anche le “Kung Fu Nuns”, monache buddhiste dell’ordine di Drukpa, in Nepal.
L’ordine Drukpa è una tradizione millenaria nata sulle catene dell’Himalaya quando il fondatore, Gyalwang Drukpa, seconda la tradizione fu testimone del miracoloso volo di nove draghi nel cielo. Le oltre 500 monache di Kung Fu, molte delle quali sono adolescenti, hanno iniziato a praticare le arti marziali per potersi rafforzare e diventare leader della comunità; hanno iniziato a imparare il Kung Fu per autodifesa, per costruire la loro forza interiore ed esteriore, per concentrarsi meglio sulla meditazione e infine per rimanere forti in modo da poter lavorare sodo per gli altri. “Crediamo di ritornare alle nostre vere radici spirituali sostenendo l’uguaglianza di genere, la forma fisica, modi di vivere rispettosi dell’ambiente e il rispetto per tutti gli esseri viventi”, hanno scritto le monache sul sito della loro organizzazione.
Provenienti dall’India, dal Nepal, dal Bhutan e dalle regioni della fascia himalayana, queste monache Drukpa ora insegnano l’autodifesa alle giovani ragazze e portano aiuti umanitari ai villaggi remoti dopo i disastri naturali. Sono state riconosciute per aver arginato il traffico di esseri umani, lottato per l’uguaglianza di genere e mobilitato per i soccorsi in situazioni di emergenza.
Quando nel 2015 il Nepal è stato colpito da un terremoto di magnitudo 7.9, grazie al sostegno della Onlus Live to Love, le monache sono state tra le prime a soccorrere il territorio distribuendo aiuti a piedi nei villaggi. In seguito, sono state in grado di effettuare un soccorso medico in elicottero, salvataggi con camion, distribuzione di cibo e medicine, forniture di energia solare e altro ancora. Recentemente hanno aiutato a costruire 201 case per le vittime del terremoto.
L’anno scorso, hanno anche combattuto in prima linea contro la pandemia in India e Nepal, fornendo a villaggi remoti cibo, forniture mediche e educazione all’igiene. Tra le altre attività il salvataggio e la cura degli animali, la musica, la danza e il teatro, anche con coreografie e musiche proprie.
Ogni anno percorrono più di 600km a piedi per raccogliere i rifiuti di plastica e educare la gente del posto a stili di vita ecologici. Recentemente hanno organizzato una biciclettata attraverso l’India e il Nepal per promuovere la pace nel mondo e il trasporto verde. “A volte gli anziani ci dicono che dovremmo stare nel tempio a leggere o in cucina. Quindi essere finaliste per questo premio ci fa sentire molto incoraggiate”, ha raccontato la monaca Jigme Konchok Lhamo al quotidiano Tribune India.
Oltre alle monache, tra gli altri candidati selezionati come finalisti per il premio Havel sono Loujain Alhathloul, attivista per i diritti delle donne, nota per avere sfidato il divieto delle donne di guidare in Arabia Saudita, in carcere dal 2018, e Julienne Lusenge, attivista congolese per la difesa dei diritti umani che ha condannato pubblicamente e documentato gli abusi sessuali e gli atti di violenza contro le donne nel suo Paese.