Noi volontari, nei campi lungo la rotta balcanica

Noi volontari, nei campi lungo la rotta balcanica

Ipsia è l’unica ong ammessa nei campi profughi di chi migra via terra nei Balcani. Molti ragazzi chiedono di partire per vedere con i propri occhi e aiutare

«La rotta migratoria via terra è molto pericolosa, specialmente quando si hanno figli piccoli con sé. Bisogna attraversare foreste, e guadare fiumi. Quando i bimbi ci raccontano i pericoli che hanno vissuto durante il viaggio, si crea una tensione molto forte. Spesso ci dicono che la mamma non è con loro, e che quando arriveranno in Germania oppure in Inghilterra li raggiungerà. In quel momento tiriamo fuori una palla per giocare, in modo che i bambini possano tornare a essere tali. Loro continuano a raccontare, ma in un clima più disteso». Benedetta Massignan, 29 anni, ha guidato un gruppo di giovani trentini in un viaggio di conoscenza nei campi profughi che si sono venuti a creare lungo la cosiddetta “rotta balcanica”, il tragitto che i migranti percorrono via terra attraverso Bosnia, Serbia e Croazia nel tentativo di entrare nell’Unione europea.

 “Terre e libertà”, progetto di mobilità giovanile di Ipsia, l’organizzazione non governativa delle Acli, propone per quest’estate diversi campi di volontariato all’estero. I due campi che hanno come meta i campi profughi di migranti sulla rotta balcanica hanno tutti i posti esauriti da mesi. Segno di un desiderio di conoscere e di capire, al di là di confini e porti chiusi? Benedetta e altri giovani come lei sono partiti prima, lo scorso aprile, nell’ambito di un progetto di Ipsia del Trentino per giovani under 30 finanziato dal Comune di Trento e altri comuni trentini. «Anche noi viviamo in un territorio di confine», racconta Benedetta. «Prima di partire ci siamo formati e abbiamo avuto la possibilità di parlare con chi fa monitoraggio della rotta del Brennero, che i migranti tentano di attraversare per arrivare in Austria e Germania. Anche in Trentino ci sono persone “fuori quota”, che si spostano via terra e non rientrano nelle quote ministeriali: si tratta di afgani, pakistani, siriani e iracheni, che entrano in Italia da Trieste e si trovano anche nei nostri territori».

Nei Balcani, Ipsia è presente sin dagli anni 90, quando giovani volontari italiani partivano per aiutare i profughi della guerra nell’ex Jugoslavia con il progetto “Un sorriso per la Bosnia”. Oggi, grazie anche alla sua conoscenza del territorio, è l’unica organizzazione non governativa ammessa nei campi di sosta temporanea dei migranti gestiti dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni. In mezzo a queste persone in cammino, la metà dei quali sono donne e bambini, non porta aiuti – cibo e medicine sono infatti distribuiti dall’Onu e dalla Croce Rossa -, ma svolge un’attività cosiddetta “non vitale”, e molto semplice: distribuire del té caldo. «È l’unico momento nei campi che rende un po’ più umane le persone che sostano in questi luoghi per un tempo indefinito, e rende giustizia al loro essere persone vulnerabili in un momento di difficoltà», afferma Benedetta Massignan. Il progetto si chiama Social Café: «In alcuni momenti della giornata si mettono in cerchio delle panchine, si porta una cassa per la musica, si distribuisce del tè e si parla con le persone», prosegue Benedetta. «È un modo per creare integrazione, e uno spazio di normalità in cui le persone possono raccontarsi e ricevere informazioni».

«Uno dei campi che ci ha più impressionato è stato quello di Bihac, al confine tra Bosnia e Croazia, che ospita in un ex capannone industriale circa 1600 persone», racconta Benedetta. «Qui, a differenza di altri campi che abbiamo visitato in Serbia, dove sostano soprattutto le donne e i bambini per periodi più lunghi, ci sono soprattutto uomini, che restano per poco tempo e poi tentano il “game”, ovvero l’attraversamento illegale del confine con la Croazia. Farlo significa essere espulsi dai poliziotti croati forniti di pistole e cani addestrati a mordere e inseguire. Entro i 30 chilometri di territorio bosniaco al confine con la Croazia si è considerati illegalmente entrati e quindi si viene respinti. I migranti raccontano di essere stati privati del cellulare e delle scarpe e rispediti in Bosnia. Una persona che abbiamo incontrato aveva una necrosi alle gambe ed era in stato di shock post-traumatico dopo il respingimento della polizia».

Benedetta e gli altri ragazzi e ragazze di Ipsia raccontano quello che hanno visto sulla pagina Facebook “Balcanicamente”. «In Trentino abbiamo organizzato una mostra fotografica negli spazi messi a disposizione dal Comune di Trento, e continueremo a restituire quello che abbiamo visto. Vogliamo far riflettere le persone del nostro territorio su quello che succede lungo questa rotta, portando con noi i volti e le storie delle persone che abbiamo incontrato».

 

  • Per approfondire: Cos’è la rotta balcanica

La Balkan Route è un corridoio geografico che ha assunto un ruolo cruciale nella storia delle migrazioni nel 2015, anno in cui 853.650 persone hanno utilizzato questa rotta per raggiungere l’Europa attraverso la Turchia, la Grecia e i Balcani occidentali. Si trattava in particolari di cittadini siriani, afghani e iracheni, in fuga dalle guerre e dagli attentati, cui presto si sono unite migliaia di persone provenienti da ogni parte dal mondo.

Nel marzo del 2016 questa rotta è stata ufficialmente chiusa e, al momento della firma del discusso accordo tra Unione Europea e Turchia, oltre 140.000 persone sono rimaste intrappolate in Grecia e oltre 7.000 persone si sono trovate bloccate lungo i centri di transito e campi per richiedenti asilo che sono stati allestiti tra Macedonia e Serbia.

Per tutto il 2016 e il 2017 migliaia di migranti passati dalla Turchia alla Grecia, hanno comunque continuato il loro tentativo di raggiungere i paesi dell’UE su questa rotta, rimanendo vittime della violenza e dell’incertezza.

Nella primavera del 2018, vista la chiusura del passaggio a nord, tra la Serbia, la Croazia e l’Ungheria, centinaia di migranti hanno iniziato a spostarsi verso la Bosnia Erzegovina dirigendosi verso l’ampio confine occidentale con la Croazia, principalmente nella città di Bihać e Velika Kladuša, mentre poche centinaia restano nei centri per l’asilo aperti tra Sarajevo e Mostar. (fonte: Caritas)