Bloccato il traffico sul fiume Marañón per protestare contro la recente fuoriuscita di circa 2.500 barili di petrolio a Cuninico. Ma gruppi armati hanno sparato contro i manifestanti e minacciato il leader delle comunità indigene locali
Nel nord del Perù, precisamente tra le comunità indigene di San José de Saramuro – nel distretto di Urarinas, provincia e regione di Loreto – sono sorte molte proteste in seguito alla fuoriuscita di circa 2.500 barili di petrolio nella vicina località di Cuninico, sul fiume Marañón, lo scorso 16 settembre.
I leader indigeni si sono recati a Lima per incontrare i rappresentanti della Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) e chiedere la presenza delle autorità del Paese nelle aree colpite, denunciando Petroperù e Perupetro, i due colossi statali del petrolio, per l’inadeguatezza nell’arginare il disastro che continua a diffondersi e a mettere sempre più a rischio la salute, la sicurezza alimentare e l’accesso all’acqua potabile delle popolazioni locali.
Dal 5 di ottobre, alcuni manifestanti hanno bloccato il traffico delle imbarcazioni da carico e di passeggeri del fiume Marañón: «Abbiamo iniziato questo sciopero a tempo indeterminato, in coordinamento con le quattro federazioni dei bacini fluviali Corriente, Tigre, Marañón e Pastaza, perché lo Stato non ha risposto alle esigenze delle nostre comunità indigene. Saremo in uno stato di lotta finché una commissione di alto livello non verrà a visitare le nostre comunità, non revocheremo questa misura di protesta», ha dichiarato un portavoce delle comunità indigene alla rete radiofonica peruviana RPP.
Proteste che sono iniziate dopo la scadenza del termine di 45 giorni concesso al governo di Pedro Castillo per riattivare il dialogo con le comunità indigene in un contesto di 50 anni di sfruttamento, contaminazione petrolifera e negligenza dello Stato nei confronti dei diritti umani e collettivi.
Ma a contrastare tali proteste sono aggressioni fisiche, dichiarazioni che incitano alla violenza e intimidazioni verso i membri delle comunità: il leader – l’apu – della comunità Kukama, Teobaldo Flores, ha denunciato di essere vittima di continue minacce alla sua integrità fisica da parte di gruppi armati: «Si sono presentati incappucciati, con fucili da caccia e hanno dichiarato che non avrebbero permesso alcun sequestro della Stazione 1 di Petroperú», hanno raccontato le organizzazioni indigene.
Inoltre, l’imbarcazione Eduardo, proveniente da Iquitos con passeggeri e merci, non si è fermata nonostante le richieste avanzate dai manifestanti della zona: «Al contrario, è avanzata senza preavviso e ha sparato colpi contro le piccole imbarcazioni comunali che cercavano di convincerla a non proseguire», hanno affermato i membri delle comnità in una dichiarazione su Twitter.
Se da un lato la popolazione nativa cerca l’attenzione dello Stato, quella contadina chiede l’interruzione della lotta che compromette la pace e la serenità.
Le comunità di San José de Saramuro si sono, però, unite nelle proteste poiché il governo centrale non ha mantenuto la promessa dell’installazione di servizi di base – come acqua potabile ed elettricità – né la bonifica ambientale a seguito della contaminazione da idrocarburi risalente al 2014.
Infatti, l’inquinamento nella zona non è una novità: nel suo report “Uno stato tossico” del 2017, Amnesty International aveva denunciato la precaria salute dei gruppi nativi e le disastrose conseguenze causate dalla contaminazione da metalli pesanti e altre sostanze chimiche delle fonti d’acqua.
Questioni che – assieme alle richieste di servizi essenziali e di bonifica del territorio – sono state presentate nell’incontro tra 85 rappresentanti delle popolazioni indigene colpite dalla fuoriuscita di petrolio e una commissione di alto livello della Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM) tenutosi lunedì 17 ottobre nella città di Nauta.