Crescono nel mondo i “blackout” di Internet, interruzioni volontarie della rete e manipolazioni della connettività che regimi e governi usano come arma contro il dissenso. A rimetterci sono i cittadini che subiscono una limitazione inaccettabile della libertà di espressione e spesso pure un danno economico
Ci sono momenti in cui il Wi-Fi singhiozza, il telefono perde il segnale e il massimo che la rete regala è la scoraggiante scritta «offline». Se per tanti cittadini occidentali questi sono – ormai rari – attimi di panico, per chi abita in altre parti del mondo potrebbe trattarsi di un segnale di ciò che gli esperti chiamano «blackout di Internet».
Questi buchi della connettività tanto simili a guasti tecnici sono in realtà di altra natura rispetto ai malfunzionamenti dell’infrastruttura. In un mondo in cui la connessione è un fondamentale canale di informazione e un importante luogo di comunità, manipolare la velocità di download è oggi è una tecnica adoperata a bella posta da regimi e governi in difficoltà che provano a mettere a tacere i dissensi e a ostacolare i movimenti di protesta anche staccando la spina ethernet.
L’organizzazione internazionale AccessNow ha contato quantità e qualità della sospensione online: dal suo rapporto emerge che nel 2018 (ultimo anno per cui si hanno dati completi) i blackout di Internet sono stati 196, un numero quasi doppio rispetto all’anno precedente.
Il Wi-Fi ha smesso di prendere in Algeria, Bangladesh, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Indonesia, Iraq, Kazakhstan, Mali, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Filippine e Russia.
Per numero di sospensioni di rete, però, in cima alla classifica di AccessNow – trasformata in infografica da Forbes e Statista – c’è l’India il cui governo si è reso responsabile di uno dei casi più clamorosi di blackout tagliando tutte le comunicazioni in occasione della revoca dello status speciale alle regioni di Kashmir e Jammu.
I blackout totali di Internet sono sicuramente la misura più estrema che gli Stati riescono ad attuare attraverso un accordo con gli operatori di rete; ma non sono l’unica possibilità che i governi adoperano per tenere sotto controllo il web. A sorpresa infatti le istituzioni sembrano preferire tecniche di controllo più soft, meno drastiche e soprattutto meno evidenti.
Una di queste è la limitazione della larghezza di banda con cui un servizio Internet o l’intera rete viene rallentata da parte di un provider. In sostanza la velocità di invio delle informazioni diminuisce finché le prestazioni si riducono e rendono impossibile caricare i contenuti e la rete inutilizzabile. In Kazakistan, per esempio, nell’ultimo anno sono stati rallentati Facebook, Instagram e YouTube proprio nell’ora in cui il leader dell’opposizione faceva la sua quotidiana diretta live. Anche a Jakarta, in Indonesia, nel maggio scorso il governo ha ridotto la connettività dei social media per provare a frenare l’ondata di protesta nata dalle accuse di presunti brogli elettorali. Insomma, la tattica si presta a varie occasioni e funziona particolarmente bene nelle aree dove l’infrastruttura Internet non è ben sviluppata e il rallentamento può facilmente essere attribuito a normali difficoltà tecniche.
Altra accortezza è quella di escludere da Internet solo utenti di specifiche regioni, naturalmente le più problematiche: in Etiopia è stata manipolata la connettività nell’intera zona di Oromia per 40 giorni, tanto che molte persone sono state costrette a spostarsi ad Addis Abeba per riuscire finalmente a navigare.
C’è poi chi mette fuori gioco specifiche piattaforme. Il Mali recentemente ha tagliato l’accesso a Facebook, WhatsApp, Twitter mentre Iraq, Indonesia, Turchia e Russia impediscono pressoché costantemente il funzionamento di Telegram. Instagram e YouTube sono invece entrate nel mirino di Nicolas Maduro: il presidente venezuelano le bloccò proprio un anno fa per boicottare il messaggio alla nazione del leader dell’opposizione Guaidò. Il blackout di Internet, infine, funziona anche come cono d’ombra da usare per coprire repressioni brutali e contenere la denuncia di violazioni dei diritti umani.
Al di là del vantaggio immediato che le amministrazioni centrali possono trarre dal blocco di Internet, i tentativi di chiudere la rete o di limitarne l’accesso si rivelano in realtà un’arma a doppio taglio per gli stessi Paesi che l’adoperano. In India, per esempio, si calcola tra il 2012 e il 2017 ci siano state 16.315 ore di inattività intenzionale di Internet: un blackout che è costato all’economia indiana più di 3 miliardi. A perderci sono però ancora una volta i cittadini che non solo soffrono una mancata libertà di espressione e una limitazione all’accesso all’informazione ma sono pure penalizzati nelle attività che hanno online. Come se non bastasse gli imprenditori digitali sono soprattutto giovani: anche per loro 191 organizzazioni internazionali hanno lanciato la campagna #KeepOnIt contro i buchi neri fatti deliberatamente nella rete.