Il presidente di Pro Civitate Christiana (al centro nella foto), spiega perché lavorare per la pace ha ancora senso, dopo l’attentato di Nizza. E racconta di quando ne parlò con Papa Francesco.
«Vivo ad Assisi e anche qui ci sono basiliche presidiate. Ci sono le transenne, la perquisizione, il mitra. Ma il terrorismo ha assunto modalità tali che pensare di affrontarlo con le armi è quanto meno una scelta miope. Ieri ne abbiamo avuto la prova eclatante, a Nizza». A parlare è Tonio Dell’Olio, sacerdote da sempre impegnato sul fronte della non violenza e dell’educazione alla pace. In questi giorni è stato nominato presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, associazione laicale che opera ponendo la centralità del Vangelo di Gesù come chiave interpretativa della piena realizzazione dell’umano. Dell’Olio è stato responsabile del settore internazionale di Libera – associazioni nomi e numeri contro le mafie, coordinatore nazionale (1993 – 2005) e membro del consiglio nazionale (1993 – 2009) di Pax Christi – movimento cattolico internazionale per la pace. Ma ciò di cui porta ricordi incancellabili è la sua collaborazione, tra il 1985 e il 1993, con Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi.
Il Papa, di fronte alla strage di Nizza di ieri sera ha detto che si è trattato di un attacco alla pace. È ancora possibile, oggi, parlare di pace senza essere tacciati di buonismo? Di fronte a quanto accaduto ieri c’è chi invoca le “maniere forti” e la guerra…
In realtà siamo di fronte a un terrorismo che non colpisce obiettivi sensibili e non usa più nemmeno le armi. E nel momento in cui i terroristi sono identificati come persone che vivono in Europa, che non agiscono nemmeno seguendo ordini di catena con l’Isis, ma in modo autonomo se non spontaneo, bisogna ammettere l’evidenza, e cioè che il terrorismo non può essere affrontato “esclusivamente” con le armi e con mezzi tradizionali. Dovremmo invece cercare di tagliargli l’erba sotto i piedi.
In che modo?
Tutti gli sforzi di dialogo con il mondo islamico – o meglio, con i mondi islamici, che sono tanti e diversi – sono destinati a lungo termine a dare risultati maggiori.
Non è illusorio parlare di dialogo?
Sinceramente non vedo altra via. Le modalità dell’attentato di ieri sera ce ne hanno dato una prova eclatante. Va detto che nemmeno il pacifismo più radicale è contrario alla difesa, a un ordine pubblico che abbia il compito di contenere la violenza. Ma l’errore è alimentare la violenza con altra violenza, non provare a cercare vie alternative.
Oggi si sono scatenate le reazioni di odio nei confronti dell’Islam e degli immigrati, da parte di politici e della gente comune…
Per quanto possa sembrare paradossale queste reazioni danno carburante al terrorismo. Sia le reazioni istintive di pacia sia quelle che partono da un’analisi per arrivare alla condanna dell’Islam in quanto tale non fanno che offrire ragioni e motivazioni al terrorismo stesso. La vera alternativa è agire sul piano educativo, cercare di approfondire nelle scuole e nelle parrocchie, cominciare a costruire la convivenza da lì. E poi bisogna chiedere con forza alle moschee e gli imam parole ferme di condanna: questa potrebbe essere una delle chiavi di volta nel percorso di sconfitta del terrorismo, che durerà anni.
Il Papa è stato il primo a parlare di “Terza guerra mondiale a pezzi” fornendo un’interpretazione di tante guerre ed episodi di terrorismo di questi anni. Ma la sua sembra spesso una voce isolata.
Sento spesso papa Bergoglio. Siamo amici sin da quando era cardinale a Buenos Aires, continuiamo a sentirci e a confrontarci su questi temi, sul potere delle mafie, sulla non violenza. Sì, è stato lui a parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, ed è martellante la sua condanna sul traffico delle armi, su chi trae profitto dalle guerre e dal terrorismo. Ma molte cose le dice anche con la scelta dei suoi viaggi apostolici. Nei suoi confronti, del Papa, abbiamo un difetto di analisi: siamo attenti a quello che dice, perché siamo abituati così, e facciamo più fatica a leggere i segni. Una volta, chiacchierando con lui, gli ho citato una frase di don Tonino Bello, che diceva: “Di fronte a coloro che ostentano i segni del potere dobbiamo opporre il potere dei segni». «Esto me gusta!» esclamò d’un tratto. E dal viaggio a Lampedusa in poi sono stati tanti i segni fatti dal Papa. Credo che questa possa essere un’indicazione anche per noi. Opporre i segni alla violenza, metterli prima delle parole.
Ci può fare un esempio?
Di fronte alle prese di posizione a priori sugli immigrati, per esempio, ho constatato che non c’è altra via che la conoscenza personale. Da lontano sono stranieri, hanno un altro colore della pelle, ci rubano il lavoro, disturbano la nostra sicurezza e la nostra salute. Quando ne conosci uno, che ti dice dove stava, ti descrive il suo Paese raccontandoti anche le sue bellezze, un altro stile di vita, e quando ti dice il disagio di un viaggio nel deserto… Ho visto persone arrivate con idee ben precise e molto prevenute sciogliersi in lacrime. Credo che l’antidoto all’odio e alla paura nei confronti degli altri sia solo la conoscenza dei volti, delle biografie, delle storie dei migranti. Tra l’altro riconosceremmo la nostra, di storia. Se facessimo questo in tutte le parrocchie e le scuole credo che la convivenza con gli immigrati in Italia sarebbe molto diversa.