Milioni di persone nel mondo vengono sfruttati come schiavi da gruppi criminali spietati. Come contrastarli e come proteggere le vittime. Alla vigilia della Giornata mondiale contro la tratta voluta da Papa Francesco parla Maria Grazia Giammarinaro, Special Rapporteur dell’Onu su questo tema
Special Rapporteur dell’Onu sulla tratta di persone dal 2014, Maria Grazia Giammarinaro è un magistrato con una lunghissima esperienza in questo campo, essendo stata anche coordinatrice per la lotta contro il traffico di persone dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). È stata lei la prima a portare all’attenzione delle Nazioni Unite la questione della sempre più stretta connessione tra guerre e tratta, ma anche a stigmatizzare le politiche migratorie restrittive che rendono le persone più vulnerabili alle reti criminali di trafficanti e sfruttatori. Oggi con i suoi rapporti presentati sia all’Assemblea generale dell’Onu a New York che al Consiglio per i diritti umani di Ginevra fa sistematicamente il punto su una piaga planetaria che continua a crescere e a diffondersi, ma anche sulle situazioni specifiche e urgenti di alcuni Paesi – compresa l’Italia – che più efficacemente dovrebbero contrastare il traffico e le mafie e proteggere le vittime.
Dottoressa Giammarinaro, di che cosa parliamo oggi quando parliamo di tratta di persone?
«La tratta è sostanzialmente una gravissima forma di sfruttamento delle persone – uomini, donne bambini e bambine – in condizioni disumane, spesso simile alla schiavitù. Questo sfruttamento si realizza in molti ambiti: sessuale, lavorativo, espianto di organi, mendicità, attività illegali… È impressionante quello che una persona può fare a un’altra persona per fare soldi illecitamente. In termini numerici parliamo di un fenomeno di massa. Stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e di Walk Free parlano di circa 22 milioni di persone costrette al lavoro forzato compreso lo sfruttamento sessuale commerciale. Tutte le aree del mondo sono interessate dalla tratta. Non c’è un’area che possa dirsi immune. Ci sono forme che prevalgono in certi contesti: in Asia si stima che addirittura quattro persone su mille si trovino in condizioni di lavoro forzato, tratta e schiavitù. Subito dopo vengono l’Europa e l’Asia Centrale, quindi l’Africa. È una situazione assolutamente inaccettabile che deve essere affrontata con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione».
Quali le tendenze emergenti?
«Innanzitutto le vulnerabilità che derivano da contesti di conflitto. Sono tante le situazioni di guerra nel mondo e sono in aumento le atrocità che vengono commesse nei confronti dei civili. Questo produce masse di sfollati costretti a emigrare in condizioni terribili e insicure, sempre a rischio di cadere nelle mani dei trafficanti».
La seconda tendenza?
«È paradossalmente opposta alla prima. La tratta si installa, peggio si incista, nell’economia del quotidiano. Pensiamo ad esempio al lavoro domestico in condizioni servili e di reclusione che si stima rappresenti addirittura quasi il 25% del lavoro forzato. Ma questo fenomeno è presente anche nell’edilizia, in agricoltura, nella pesca, nel tessile… Anche solo guardando alla situazione italiana, in particolare al settore dell’agricoltura troviamo che il caporalato e le forme di sfruttamento paraschiavistico sono addirittura ampiamente tollerate perché c’è una mafia che si è appropriata del business dei migranti. Basti pensare che la ‘ndrangheta ha acquistato enormi porzioni di terreno agricolo in Calabria e sostanzialmente controlla tutto, dal reclutamento attraverso i caporali sino alla trasformazione e alla distribuzione dei prodotti finiti. Esiste una sorta di mercato del lavoro irregolare e parallelo che è diventato una componente sistemica della nostra economia».
Spesso tra le vittime troviamo moltissimi minorenni…
«Questa è la terza tendenza. I minori costituiscono almeno un quarto delle vittime di tratta. È una percentuale enorme e quindi deve essere considerata una priorità assoluta. In particolare, molti minori migranti non sempre hanno la protezione a cui avrebbero diritto. Per non parlare dei minori sfollati. Penso in particolare a un viaggio che ho fatto in Giordania dove ci sono milioni di siriani, e tra di loro moltissimi minori. I bambini diventano spesso l’unico sostegno economico della famiglia perché possono lavorare nell’economia informale sempre super sfruttati».
Ha già accennato più volte al tema delle migrazioni. Quanto i due fenomeni sono connessi?
«Il legame con le migrazioni è da sempre una delle caratteristiche più evidenti del fenomeno della tratta. Che, tuttavia, non è necessariamente legata solo alle migrazioni, e può avvenire anche in contesti locali. La grande maggioranza dei casi di tratta però si verifica in contesti di spostamento di persone, a causa delle condizioni di vulnerabilità in cui si trovano i migranti, come l’isolamento, la non conoscenza della lingua, la perdita di legami sociali e familiari e così via. Di tutto ciò approfittano i trafficanti. Ecco perché non dobbiamo nasconderci che c’è un grande problema di politiche migratorie che oggi non sono una parte della soluzione, ma appunto una parte del problema. Contribuiscono ad aumentare la vulnerabilità di migranti, richiedenti asilo, rifugiati… Purtroppo nei Paesi dell’UE non vi sono procedure di identificazione di queste vulnerabilità all’arrivo nemmeno per individuare i casi di tratta. Nonostante ciò alcune buone pratiche sono state messe in atto e talvolta qualche risultato positivo è stato raggiunto».
È una questione che tocca da vicinissimo il nostro Paese…
«In questi anni, con un gruppo di Special Rapporteur dell’Onu abbiamo inviato ben tre raccomandazioni al governo italiano per dire che i decreti sicurezza devono essere ritirati. Anche il nuovo governo non ha ancora affrontato la questione. Non è un problema di piccoli aggiustamenti; è la filosofia stessa dei porti chiusi che deve essere capovolta e sostituita da una politica aperta nei confronti delle molteplici vulnerabilità che si ritrovano all’interno dei flussi migratori misti e di revisione della stessa impostazione della legislazione sull’immigrazione. L’assoluta mancanza di canali legali rende ovviamente tutta l’immigrazione irregolare. La prima cosa dunque sarebbe quella di consentire una migrazione regolare, legale, che riduca le vulnerabilità dei migranti che vengono sfruttati dai trafficanti. Quando si parla di lotta ai trafficanti bisognerebbe comprendere che non è una questione militare, di muscoli o di chiusura delle frontiere, ma di protezione dei migranti. Questo naturalmente è totalmente in controtendenza con le politiche messe in atto non solo dall’Italia; ma non bisogna stancarsi di ribadirlo perché già dirlo significa fare un’operazione di verità e di corretta informazione dell’opinione pubblica».
Le mafie internazionali guadagnano cifre enormi sul traffico di persone. Cosa si potrebbe fare per contrastarle più efficacemente?
«È verissimo che la tratta è diventata un business internazionale estremamente redditizio. Da intercettazioni telefoniche di boss della ‘ndrangheta emerge addirittura che alcuni di loro considerano lo sfruttamento sia sessuale che lavorativo ancora più redditizio del traffico di droga. Eppure nel contrasto siamo ancora agli albori. Un grande passo avanti è stato fatto con la nuova legge sul caporalato che mette finalmente nel mirino anche i datori di lavoro e non solo gli intermediari. Tuttavia, il permesso di soggiorno per grave sfruttamento lavorativo viene dato molto raramente. Ma se un lavoratore vuole ribellarsi che cosa ottiene? Niente. Perde il lavoro e rischia di essere espulso. Questo frena anche la possibilità di una lotta efficace contro le mafie e contro l’intermediazione parassitaria e criminale sia dei gruppi criminali locali che di quelli dei Paesi di origine dei lavoratori sfruttati».
Quindi bisognerebbe proteggere maggiormente le vittime anche per lottare contro questa piaga?
«Certamente. Occorre creare percorsi garantiti per coloro che decidono di ribellarsi perché si crei anche la possibilità di perseguire i criminali. E per fare questo bisogna seguire i soldi – follow the money – perché se si cercano i soldi si trovano anche i colpevoli. Ma c’è un problema di cooperazione tra Paesi. Inoltre, le indagini finanziarie si dovrebbero fare nei processi per tratta sin dall’inizio, ma questa non è ancora una pratica corrente. Si fanno nei casi di corruzione o di criminalità organizzata tradizionale, ma non nei casi di tratta. E così i profitti svaniscono e persino quando si fanno processi o si condannano i responsabili le vittime non ottengono alcun risarcimento».
In che termini dovrebbe essere coinvolta la società civile?
«Di fronte a un fenomeno di massa di questo tipo, tutti dovrebbero essere coinvolti in qualche modo. Ci sono quelli che possono fare di più perché sono maggiormente a contatto con le vittime come il personale sanitario o gli ispettori del lavoro. Poi c’è quello che possiamo fare tutti noi in quanto cittadini o consumatori, ponendoci ad esempio il problema di cosa stiamo acquistando e di come sono fatti quei prodotti. Spesso basta che apriamo gli occhi. La stragrande maggioranza dei casi di servitù domestica sono stati segnalati da vicini di casa. Un pubblico informato può identificare certi indicatori. Per non parlare dello sfruttamento sessuale, che è lì sulle nostre strade. Anche gli uomini che acquistano servizi sessuali si dovrebbero porre il problema. Tutti possono fare qualcosa e soprattutto gli organi di informazione. Uno dei fattori trainanti della tratta è il fatto che lo sfruttamento dei migranti nella mentalità comune è considerato come qualcosa di “normale”, è stato “normalizzato”. E questo è gravissimo. Questa è una delle questioni che attraverso un’informazione corretta dovrebbe essere completamente capovolta perché la consapevolezza collettiva è la migliore arma che abbiamo».