La fiducia al tempo della lontananza

La fiducia al tempo della lontananza

Rinviato a causa dell’emergenza Coronavirus l’incontro europeo che doveva tenersi a fine anno a Torino, il priore di Taizé, frère Alois, riflette sul senso della fraternità in questa epoca difficile, ma anche sull’impegno per i migranti e l’ecologia

 

«Dobbiamo chiederci quanto sia sostenibile un equilibrio basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia» (Fratelli tutti, 262)

 

Fiducia, amicizia e, ovviamente, fraternità. Si è sempre articolata attorno a queste tre parole l’esperienza di Taizé, da quando frère Roger arrivò ottant’anni fa su questa collina della Borgogna per avviare un cammino che continua ancora oggi. Un cammino che incarna nel vissuto quotidiano dei fratelli e nelle molte attività specialmente con i giovani tutte le sfumature che queste tre parole implicano, in termini di radicamento nel Vangelo e di possibilità di apertura, incontro e dialogo con l’altro. Ma l’esperienza di Taizé, se da un lato ritrova forza e vigore dalla nuova enci­clica di Francesco, Fratelli tutti, dall’altro deve fare i conti con la pandemia di Coronavirus che ha limitato innanzitutto la possibilità di stare vicini. E così, l’incontro europeo, tappa annuale del “Pelle­grinaggio di fiducia sulla terra” che doveva tenersi a fine anno a Torino è stato rimandato e per la prima volta da 45 anni verrà fatto a Taizé, ma con un numero molto limitato di persone. Però tanti giovani di diversi continenti potranno parteciparvi virtualmente: tramite internet potranno seguire preghiere, workshop e anche organizzarsi in piccoli gruppi di condivisione. «Durante il lockdown – testimonia frère Alois, priore della comunità dalla morte di frère Roger avvenuta quindici anni fa – la collina di Taizé si è completamente svuotata. Non avremmo mai immaginato una cosa del genere! Perché l’accoglienza dei giovani – e non solo – è parte integrante della nostra vocazione. E improvvisamente ci siamo ritrovati soli».

Come lo avete vissuto?
«È stata dura, ma al tempo stesso ci ha forzati ad andare all’essenziale della nostra vocazione e a rinforzare la vita fraterna tra noi».

Un modo diverso di vivere la fraternità, dunque…
«È stato come un tempo sabbatico, ma anche di difficoltà materiali perché viviamo del nostro lavoro, vendendo i nostri prodotti a Taizé. Ma non c’erano più visitatori e dunque dovevamo cercare un modo di guadagnarci da vivere. Da allora, ad esempio, alcuni di noi vanno ogni sabato nei mercati della regione per vendere le nostre ceramiche. Frère Roger, sin dall’inizio, ha molto insistito sul fatto che dovevamo vivere del nostro lavoro».

Quale fiducia in questo periodo di paura e di chiusura? Quale significato ha oggi questa parola?
«Questo periodo non è terminato, ci siamo ancora dentro e dappertutto ci saranno molte e gravi conseguenze, non solo sanitarie, ma anche economiche e psicologiche. Dunque è un enorme sconvolgimento. Anche delle nostre sicurezze. Abbiamo perso le nostre certezze. Penso però che questo momento sia molto importante affinché noi cristiani torniamo alla fonte della nostra fede che è la resurrezione di Cristo».

Come è possibile in un momento in cui per molti anche la fiducia in Dio vacilla?
«In realtà, era già così prima. Soprattutto molti giovani hanno perso la fede o la fiducia nella Chiesa per le difficoltà che l’attraversano. Ma hanno anche molta sete di esperienze di comunione oltre che di relazioni personali. E questo è un momento propizio per avere incontri di approfondimento, anche se occorre mantenere la distanza fisica. C’è davvero una grande sete di relazioni umane. L’abbiamo costatato negli scorsi mesi a Taizé. Alcuni giovani sono tornati: ne abbiamo accolti 400-500 durante l’estate e all’inizio dell’autunno. Ora vedremo. Ci siamo resi conto che gli incontri virtuali offrono delle possibilità concrete che non conoscevamo prima, ma non sono sufficienti. Li abbiamo fatti e continuiamo a farli. Molti hanno seguito. Ed è stata una bella opportunità soprattutto per quelli che vivono lontani come in Africa, America Latina o Asia. Ma c’è tanto bisogno di tornare a incontrarsi di persona. Per il momento, però, è ancora molto difficile».

Nel vostro carisma ci sono anche il camminare, il pellegrinaggio e, appunto, l’incontro. Come fate ora?
«Per noi, gli incontri – non solo a Taizé ma nei diversi continenti – sono sempre stati momenti molto belli e significativi. Lo scorso anno ne abbiamo fatto uno a Città del Capo, con circa duemila giovani di vari Paesi, accolti nelle famiglie. Bianchi a casa di neri, neri a casa di bianchi, tutti mischiati. È stato davvero un grande segno di riconciliazione in Sudafrica. Due anni fa è successo a Hong Kong, dove hanno partecipato giovani di diversi Paesi asiatici e 700 provenienti dalla Cina continentale. Questi incontri permettono di superare le frontiere e far sì che i giovani si conoscano al di là dei confini non solo politici, ma anche culturali e di lingua, per scoprire la bellezza della Chiesa universale. Questo può aiutare ad approfondire la fede. I cuori si aprono e capiscono il senso del Vangelo che è fraternità al di là delle frontiere. Questo è uno dei nostri impegni: aprire le frontiere».

Anche l’incontro europeo dello scorso anno a Breslavia in Polonia è stato un segno importante per il nostro continente…
«Occorre creare anche attraverso l’Europa contatti personali in un periodo in cui la diffidenza tra i Paesi diventa più grande. Speriamo che possa nascere una forte solidarietà pure all’interno dell’Unione Europea».

Il Coronavirus, in questo senso, può essere un fattore di apertura o di ulteriore chiusura?
«All’inizio c’è stata più chiusura, successivamente alcuni politici hanno visto che è necessaria la solidarietà tra i Paesi. Spero che si possa scoprire e accentuare questa solidarietà perché non possiamo trovare una soluzione ciascuno per sé. Il Covid-19 non conosce frontiere. Ma anche il Vangelo non conosce frontiere. E allora è importante costruire solidarietà tra Paesi in Europa e anche altrove».

E tra le persone?
«Penso ci sia la speranza che le persone capiscano che la paura rende la vita più difficile e il confinamento aumenta l’isolamento. Oggi c’è maggiore consapevolezza di questo. Ma anche la Chiesa deve fare la sua parte e aiutare a far crescere questa presa di coscienza e questa solidarietà. Le persone hanno bisogno di poter esprimere le loro paure, le loro inquietudini; hanno bisogno di essere ascoltate. Il ministero dell’ascolto, per noi, è sempre stato una priorità assoluta. E penso che debba essere una priorità per tutta la Chiesa. I giovani hanno bisogno di trovare ascolto nella Chiesa. Anche se adesso con la pandemia è tutto più difficile e dobbiamo pensare a nuove modalità».

Quali sono le domande della gente che “intercettate” in questo tempo difficile?
«Sostanzialmente si articolano attorno a due dimensioni. La prima riguarda ciò che ci permette di resistere in un mondo così imprevedibile. Che cosa c’è di solido nelle nostre vite? Di fronte a queste domande è importante che le persone possano scoprire la Chiesa come luogo di amicizia, in cui ciascuno può sentirsi in comunione. È un aspetto che colpisce particolarmente i giovani quando passano una settimana a Taizé: fanno l’esperienza di potersi incontrare e andare insieme alle sorgenti della fede che è una ricerca per tutta la vita. Non ricerca di certezze, ma un continuo andare avanti a porsi domande insieme ad altri».

E la seconda dimensione?
«La riscontriamo soprattutto nei giovani: ovvero il desiderio, la necessità di una più grande attenzione all’ecologia che implica una più grande semplicità di vita. Da un paio d’anni, ci fanno molte domande su questi temi, talvolta con angoscia. Noi, come Chiesa, abbiamo la grande responsabilità di creare un legame tra questa ricerca e il percorso di fede, anche per affrontare l’ansia per il futuro. Penso che sia molto bello, che sia un segno di speranza che i giovani si pongano questi interrogativi e si impegnino anche concretamente: vogliono cambiare le loro vite, fanno più attenzione anche alle cose di tutti i giorni, a come viaggiare, al cibo, all’acqua… Due o tre anni fa, alcuni si lamentavano che i giovani erano apolitici, passivi. E invece vediamo che è in atto un cambiamento, un risveglio di coscienza. E tutto questo è molto bello. Penso che la Chiesa possa e debba accompagnare ancora di più questo percorso».

A suo avviso, l’enciclica Laudato si’ ha contribuito a dare una spinta alla Chiesa in questa direzione?
«Certo! E ci ha spinto a dare davvero più protagonismo ai giovani. A Taizé sono soprattutto loro ad animare i momenti di riflessione su questi temi e talvolta siamo davvero colpiti dalle grandi competenze che alcuni hanno in questo ambito. Ascoltando le loro intuizioni, la questione dell’ecologia è diventata una dimensione importante anche a Taizé».

Un altro tema su cui avete lavorato molto in questi ultimi anni è quello delle migrazioni. In che termini?
«In effetti, l’attenzione per tutto ciò che ha a che fare con le migrazioni è diventata molto importante per noi. E anche in questo ambito i giovani si sono dimostrati molto sensibili. A Taizé abbiamo sempre accolto migranti e profughi; già frère Roger lo faceva nei primi anni della comunità. Penso a una famiglia di Sarajevo, che abbiamo accolto nel nostro villaggio dopo la guerra nell’ex Jugoslavia, o a un’altra del Ruanda, fuggita dal genocidio del 1994. Negli ultimi anni, e soprattutto a partire dal 2015, abbiamo accolto molti migranti, specialmente africani, da Paesi come il Sudan o l’Eritrea… Ora abbiamo tre famiglie yazide, mamme con bambini. I padri sono stati uccisi perché si sono rifiutati di diventare musulmani. La cosa straordinaria è che riceviamo moltissimo da loro. Pensavamo di essere noi ad aiutarli, ma quello che ci danno ha un valore incommensurabile. Perché ci aprono gli occhi su tante cose e su tante situazioni che non conosciamo e hanno un coraggio immenso. E per l’amicizia forte che ci lega».

Lei è stato anche in Sudan?
«Sono andato a visitare alcune famiglie. In particolare quella di un rifugiato la cui moglie era stata uccisa e il bambino viveva con la sorella. Siamo riusciti a farlo venire a Taizé. Ho incontrato anche la madre di un giovane arrivato da Calais e morto dopo una settimana per problemi di cuore. Era inconsolabile. Ma ha detto queste parole, così impressionanti: “Dio l’ha dato, Dio l’ha tolto. Che il nome di Dio sia lodato!”. Sono praticamente le stesse parole di Giobbe nella Bibbia. Non lo dimenticherò mai! Mi sono reso conto che, come spesso dice Papa Francesco, non si tratta solo di fare la carità. Ma di riscoprire la nostra stessa umanità. La maggior parte dei migranti che accogliamo sono musulmani. Ma ho detto ai miei fratelli: “Cristo è morto anche per loro”.»

Questa dimensione internazionale è sempre molto presente nell’esperienza di Taizé?
«Sicuramente. Abbiamo alcune piccole fraternità nel mondo, in Brasile, Corea del Sud, Bangla­desh, Senegal e Cuba. Per noi è importante non vivere solo a Taizé, ma essere presenti in situazioni molto diverse e spesso molto dure. Anche con alcuni missionari del Pime, specialmente in Bangladesh, stiamo facendo da anni un percorso insieme».

E in Corea del Nord?
«È un cammino cominciato 26 anni fa e che continua. All’epoca c’era una carestia devastante. Avevamo ricevuto una donazione importante, l’eredità di uno dei nostri fratelli, che non teniamo mai per noi. Frère Roger aveva pensato di mandare del cibo e il governo era d’accordo. Siamo riusciti a far arrivare mille tonnellate di farina di mais. Da allora abbiamo preso contatto con la Croce Rossa e con loro abbiamo un legame per sostenere un ospedale e alcune scuole e anche far avere latte di soia a circa 6 mila bambini nelle classi. Io stesso sono andato a Pyong­yang: è stata un’esperienza molto forte essere lì. Questo è un impegno che continua, anche se ora il Paese è completamente chiuso a causa del virus».

A quindici anni dalla morte di frère Roger che cosa resta in particolare di lui?
«Resta innanzitutto l’importanza della fiducia. Alla fine della sua vita era la parola che ritornava sempre sulle sue labbra. Non intesa come passività cieca. Al contrario, la fiducia risveglia la creatività, il coraggio, la fede. Significa credere che anche le cose che pensiamo impossibili siano possibili. Frère Roger ha dato inizio a questa nostra piccola comunità al tempo della Seconda guerra mondiale. Era un grande gesto di fiducia. Fiducia che le frontiere che dividevano l’Europa non fossero assolute. Aveva 25 anni quando è arrivato qui. E ha cominciato a fare un piccolo passo. Non aveva un progetto molto chiaro all’inizio. Pensava a una comunità, ma non sapeva di che tipo. Sapeva di dover fare un passo dopo l’altro».

È quanto rimane ancora oggi nel Dna e nel futuro di Taizé?
«Credo di sì. È questo modo di fare, senza avere necessariamente un progetto o visioni a lungo termine, che ci accompagna ancora oggi. Non richiusi, ma aperti e fondati su questa fiducia che Cristo è venuto per tutti gli esseri umani. Per tutti, senza eccezione. C’è una fraternità tra tutti che lo Spirito Santo crea costantemente e che anche noi possiamo contribuire a scoprire e costruire».