Sono ormai un milione e mezzo i profughi siriani in Libano: una sfida enorme per un Paese piccolo e instabile. Ma un progetto, sostenuto dalla Caritas, valorizza le competenze delle rifugiate per creare lavoro e integrazione. A partire dai fornelli
Abbiamo abbandonato la Siria, ma la Siria non ha abbandonato noi… L’ansia ci insegue». Nahrein si lascia scappare solo per un momento il disagio e l’amarezza che le appesantiscono il cuore. Di solito nasconde la preoccupazione dietro al suo sorriso esuberante e si concentra sui manicaretti da servire ai clienti del Tawlet, come le sue famose kibbeh, crocchette di carne macinata a cui aggiunge i semi di melograno che danno al piatto quel gusto speciale.
Rasha invece ama il profumo della verdura fresca mentre prepara l’insalata: le ricorda casa sua, a Homs, da dove è dovuta scappare con suo marito e i loro quattro figli per non essere inghiottita nel buco nero della guerra che da quasi quattro anni funesta la Siria.
«All’inizio pensavo che saremmo stati via solo per qualche mese, una “vacanza allungata”, come dicevo ai bambini, poi ho dovuto accettare la realtà», racconta. Nahrein Abdal e Rasha Mhemid fanno parte di quella marea umana che si è riversata oltre il confine con il Libano per sfuggire al pantano siriano: ormai un milione e mezzo di persone in fuga da violenza e miseria, raddoppiate nel giro di un solo anno, cioè un quarto dell’intera popolazione del Paese dei cedri.
I siriani che oggi affollano l’area metropolitana di Beirut sono oltre 310 mila, mentre nella regione di confine della Bekaa altri 420 mila sono ammassati in campi profughi e rifugi di fortuna. Una pressione demografica esplosiva, a maggior ragione per uno Stato dall’equilibrio socio-politico instabile e in cui mancano spazio e risorse. L’arrivo in massa dei profughi ha visto il prezzo degli affitti triplicare, i servizi di base deteriorarsi e i posti di lavoro diminuire per la concorrenza della manodopera a buon mercato dei nuovi venuti. Una situazione che ha riacceso tensioni confessionali e politiche – le truppe siriane sono rimaste in Libano fino al 2005 – e ha spianato la strada a episodi di intolleranza verso gli “invasori”, etichettati spesso come parassiti. «Io mi sentivo un fardello inutile – conferma Ibtisam – finché, cucinando, ho scoperto che avevo qualcosa da offrire. Vorrei che, attraverso il cibo che prepariamo, la gente conosca le nostre storie».
Come Nahrein e Rasha, Ibtisam Masto, 34enne di Idlib, è scappata dalla Siria due anni fa con il marito e i sei figli. E anche lei ha aderito a un’iniziativa proposta alle rifugiate da Caritas libanese e Acnur (Alto commissariato Onu per i rifugiati), che hanno sostenuto l’idea del “gastro-pacifista” Kemal Mouzawak, un veterano dei progetti di sviluppo e riconciliazione a base di buona cucina. Creatore dieci anni fa del Souk el Tayeb, il primo farmer market libanese, biologico e a km zero, nato per incoraggiare i piccoli produttori a non abbandonare le campagne, Mouzawak è infatti anche l’inventore della catena di ristoranti Tawlet, che uniscono l’eccellenza del cibo all’ideale di una società aperta e plurale.
«Quando ho aperto il primo locale a Beirut – racconta Kemal – il mio obiettivo era celebrare il patrimonio gastronomico condiviso da tutte le comunità che compongono il Libano, e che per anni si erano combattute in una guerra civile devastante. Coinvolgere cuoche di diverse appartenenze confessionali era un modo per rimarcare ciò che di bello abbiamo in comune». Un’idea che i clienti hanno dimostrato di apprezzare, se in questi anni il Tawlet ha aperto anche ad Ammiq, nella valle della Bekaa, e a Bkassine, a sud della capitale, nel distretto di Sidone.
Per questo, quando la guerra è tornata a lambire pericolosamente i confini libanesi, Mouzawak ha pensato di adattare l’intuizione alla nuova emergenza. È nato così il progetto Atayeb Zaman, letteralmente “Il delizioso passato”, che valorizza l’abilità culinaria delle rifugiate siriane coinvolgendole in corsi di catering che aprono loro le porte ad opportunità lavorative. Un’occasione vitale: secondo l’Onu, un quarto delle famiglie scappate dalla Siria dipende economicamente da una donna. Le prime partecipanti al progetto Atayeb Zaman hanno trovato impiego nelle cucine del Tawlet, nella caffetteria dell’Acnur a Beirut o tra fiere e mercati in cui vendono le loro produzioni, ma la speranza degli organizzatori è raccogliere fondi per garantire alle cuoche – 25 per ogni corso – uno spazio tutto loro, in cui preparare banchetti per eventi e cerimonie.
Stare insieme attorno ai fornelli, tuttavia, non significa solo racimolare il necessario per una vita dignitosa. «L’abilità culinaria è tutto ciò che queste donne hanno portato con sé dal loro Paese», spiega Kemal. «Le rifugiate, che provengono da zone diverse della Siria, cucinando i piatti che erano no solite preparare per le loro famiglie hanno modo di ricreare un’identità nazionale qui in Libano e di salvaguardare le tradizioni delle loro regioni». E non solo, come spiega la responsabile di Atayeb Zaman Jihane Chahla: «Tra le cuoche selezioniamo anche delle libanesi, in modo da permettere una conoscenza diretta tra le partecipanti e aiutarle a superare barriere culturali e pregiudizi diffusi. Senza dimenticare il valore terapeutico di un’iniziativa che spinge le donne a focalizzarsi sugli aspetti positivi delle loro vite».
Conferma Rasha: «Cucinare mi aiuta a tenere la mente occupata, a guardare avanti. Qui ho anche incontrato delle amiche: prima di partecipare a questo programma non ne avevo, ora posso dire di aver trovato delle sorelle». E, in cucina, le differenze settarie che stanno dilaniando il Medio Oriente tornano ad essere irrilevanti. «Fino all’inizio della guerra nemmeno conoscevo con esattezza la differenza tra sunniti e sciiti», sospira Mariam Al Bakkour, 31 anni, di Aleppo. «Da bambini tutti giocavamo insieme, ci definivamo “siriani” e basta…». Nel suo stesso corso, oggi, ci sono anche due cristiane: Nahrein e Marleine Youkhanna, di Hassakeh. «Prima di andarmene dalla Siria, ho lasciato le chiavi di casa al mio vicino: un musulmano», racconta Marleine. «Lui la proteggerà. Queste divisioni su base religiosa sono una bugia, non hanno senso». Ma – ammette – ci vorrà molto tempo prima che le cose possano tornare alla normalità.
Nel frattempo, Marleine si dà da fare per essere pronta quando i risparmi di una vita, che lei e il marito avevano messo da parte per l’istruzione dei figli, finiranno: studia l’inglese e, naturalmente, cucina. Le sue keftah souriyeh, letteralmente “polpette siriane”, a base di carne e riso, sono ormai rinomate alla caffetteria dell’Acnur a Beirut. «È dura, ma non possiamo aspettare che le cose belle arrivino da sole: dobbiamo lottare per ottenerle», afferma. A confermarlo è padre Paul Karam, il direttore della Caritas. «Il Libano è piccolo e ha accolto più rifugiati di Paesi come Giordania e Turchia», spiega. «Ma sistemare queste persone, aiutarle per il cibo e i vestiti è un’impresa al di sopra delle nostre possibilità». Per non parlare del problema delle scuole: «Ci sono circa 600 mila studenti siriani che dovrebbero frequentare le lezioni, ma le nostre classi non ne possono accogliere più di 350 mila. Moltissimi ragazzi rimangono fuori, ci sarebbe bisogno di insegnanti, educatori…». Le risorse del Libano non bastano per tutti e gli aiuti dall’estero non sono sufficienti: questo provoca tensione sociale e pericolose guerre tra poveri. «Se, ad esempio, come Caritas aiutiamo gratuitamente i profughi a livello sanitario ma poi non possiamo fare lo stesso con i libanesi bisognosi, questo ingenera rabbia e odio verso i rifugiati», afferma padre Karam.
Ecco perché un progetto di inserimento lavorativo come Atayeb Zaman rappresenta un piccolo modello da imitare. Dopo Beirut, i corsi di catering sono partiti anche a Rmeileh, vicino a Sidone. «L’idea è avvicinare al concetto di imprenditorialità donne che non avevano mai pensato di poter usare il loro talento, in questo caso culinario, per rendersi autonome e migliorare la vita delle proprie famiglie», spiega ancora Jihane Chahla. I fatti dimostrano che queste signore hanno imparato in fretta. Oggi i nomi delle specialità di Mariam, Nahrein, Ibtisam e tante altre rifugiate sono stampati a caratteri eleganti sul menù del Tawlet. E loro, ricreando il sapore di casa, sono riuscite a lenire, almeno un poco, il dolore dell’esilio. MM