Padre Damiano Tina, missionario del Pime a Ecatepec, in una delle baraccopoli della grande periferia di Città del Messico: «Sono qui per stare con chi vive ai margini. E incontrare il Signore, che lavora già»
Le baracche ammassate lungo i binari del treno, nella Cartonera, una delle baraccopoli della periferia di Città del Messico. Di qui passa la Bestia, il treno merci che attraversa tutto il Messico dal Sud fino agli Stati Uniti, il mezzo divenuto famoso perché i migranti provenienti dal Centramerica provano a salire sui suoi vagoni in corsa per tentare la loro traversata. Ma anche quanto succede intorno non è meno drammatico: migliaia di persone ammassate in rifugi tirati su in fretta, violenza, abbandono da parte di tutti. «Neanche la polizia messicana entra qui dentro», ci racconta padre Damiano Tina. Ma questa è lo stesso la sua casa e la sua comunità che siamo qui per incontrare. Ci aspettano nel piazzale davanti a una delle baracche, per porci insieme in ascolto della Parola di Dio. Proprio qui, dove a poco a poco sta mettendo radici una comunità.
Quarantacinque anni, originario di Vimodrone (MI), padre Damiano è in Messico dal 2006. Per una decina d’anni ha svolto il suo ministero nel Guerrero, prima nella periferia di Acapulco poi sulle montagne tra i mixtecos, le popolazioni indigene locali. Fino ad arrivare qui, nell’immensa periferia di Città del Messico, per aprire una nuova presenza del Pime ai margini di una metropoli di 25 milioni di abitanti. «Dal 2016 sono qui a Ecatepec – racconta – che con i suoi 5 milioni di abitanti è il più grande municipio di tutta la Repubblica messicana. Forma anche una diocesi a sé; ma basta attraversare la strada per ritrovarsi nel territorio di Città del Messico, senza nemmeno accorgersene».
Vite ai margini della metropoli, in un contesto estremamente difficile. «Sono periferie abbandonate, poco sicure, segnate dalla violenza e abitate da gente arrivata qui da diversi Stati della Repubblica in anni in cui l’espansione demografica è stata fortissima – continua padre Tina -. Nella zona in cui siamo noi, poi, c’è anche una forte presenza indigena di comunità nawatl: sono gruppi originari dello Stato di Vera Cruz, sulla costa atlantica. I primi arrivarono qui in cerca di lavoro quarant’anni fa, ma ormai siamo già alle seconde e alle terze generazioni. Il vescovo di Ecatepec ha voluto qui noi missionari del Pime proprio per prenderci cura di loro».
Con i nawatl ma in un ambiente ben diverso dai loro villaggi; missionari “in uscita” là dove il grande esodo verso le città ha portato milioni di persone a concentrarsi in angoli dove spesso anche salvaguardare la loro dignità diventa una sfida.
«A me e a padre Deodato Mammana (sacerdote della diocesi di Catania, anche lui missionario associato al Pime, ndr) è stata affidata la cappella di san José come punto di riferimento per tre colonie, cioè tre quartieri. Tra questi c’è la Cartonera, la grande baraccopoli: si chiama così perché le prime case erano di cartone; poi sono arrivati il legno e in qualche caso il mattone, ma tutto è rimasto abusivo. Ci abitano migliaia di persone – indigene e no – e si estende sui binari della Bestia. In realtà qui il fenomeno dei migranti è diminuito parecchio negli ultimi tempi, perché dopo gli articoli e i servizi televisivi le autorità sono intervenute per cercare di bloccare a monte anche questo flusso. Però delle persone aggrappate ai vagoni che passano per la Cartonera alcune volte si vedono ancora».
Quale presenza di Chiesa in un contesto del genere? «Come missionari non siamo venuti per chiuderci dentro una cappella a proporre i nostri riti – risponde padre Damiano -. Siamo qui proprio col desiderio di dare una risposta all’invito rivoltoci da Papa Francesco a essere una Chiesa che va nelle periferie. Ecatepec è una periferia geografica, ai margini di Città del Messico; ma è soprattutto una periferia esistenziale perché le situazioni sono davvero difficili e problematiche. La nostra è una pastorale di strada, volto – appunto – di una Chiesa in uscita».
«Quando siamo arrivati qui tre anni fa non c’era nessun tipo di presenza pastorale – continua il missionario del Pime -. Questo territorio apparteneva sì a una parrocchia di Ecatepec, ma fin qui non si spingeva nessuno. Così abbiamo iniziato noi a conoscere la realtà: ho cominciato a visitare le famiglie entrando nelle case, facendomi conoscere, accompagnato da una donna indigena catechista che si è messa al servizio della nostra comunità. Perché gli indios conservano i loro usi, le loro tradizioni, la loro lingua e c’è bisogno di qualcuno che mi aiuti. Ma anche perché bisogna entrare in punta di piedi, poco alla volta, conoscere la realtà, per poter iniziare davvero un discorso di conoscenza. Ancora adesso proponiamo iniziative semplici: la nostra gente non sa né leggere né scrivere, si spiega loro la Parola di Dio in modo semplice, si utilizzano animazioni, canti. Ma soprattutto si fa capire che siamo qui per loro e non abbiamo altra pretesa se non accompagnare il cammino della comunità. Poi io cammino molto, mi vedono, sanno chi sono: già questo è un successo. Quando i bambini cominciano a salutarti non corri più nessun pericolo: sai che la gente ti vuole bene».
Una presenza semplice, ma con alcune scelte chiare e anche profetiche per il contesto del Messico. Ad esempio, per tutto ciò che attiene alla fede, dai missionari del Pime non si paga niente. «Non entriamo in nessun tipo di logica commerciale – precisa padre Tina -. Quello dei soldi che girano intorno al sacro qui è un problema che si sente e non è un caso che Papa Francesco insista tanto su questo punto. Con noi la gente può vedere che è diverso e questo accorcia le distanze».
Andare incontro all’altro è comunque sempre il primo passo: «Bisogna sbarazzarsi dell’idea per cui la parrocchia è il centro dove tutto deve convergere e il resto è escluso – commenta il missionario di Ecatepec -. Non sono loro a dover venire da te, sei tu che devi andare da loro. Gesù non diceva mica: vi aspetto alle 10 in ufficio o in salone per l’incontro; era lui a visitare la gente lì dov’era e a far nascere così la Chiesa». Ed è un metodo che non vale certo solo per il Messico: «Anche in Italia dovreste avere più coraggio – insiste padre Damiano -, essere disposti a perdere qualcosa per guadagnare ciò che è più prezioso e importante. Altrimenti si rischia un ripiegamento mortale, ci si trasforma in un’ong della carità. Andare oltre le strutture, oltre quello che ci tiene legati, incapaci di prendere il largo. Lasciare il certo per l’incerto è la logica del Vangelo».
Padre Damiano racconta di averci portato anche il nunzio, nella Cartonera; la prima volta di un vescovo tra quelle baracche. «Mi ha detto: “Ho svolto il servizio diplomatico in altri posti, dove la povertà era molto diffusa, ma in nessun posto come a Città del Messico sono rimasto colpito dal divario tra ricchi e poveri”. È vero – commenta padre Tina -, qui è tremendo: ci sono ville di persone ricchissime e alcuni indigeni delle nostre periferie che vivono letteralmente tra i rifiuti, dove la dignità umana è negata. Di fronte a queste cose come fai a dire solo: “Venite tutti nella nostra cappella e celebriamo la Messa”? Sarebbe stregoneria, non cristianesimo. L’unica strada è avvicinarsi all’umano perché Cristo entri e possa dare vita nuova. Altrimenti non cambia mai niente».
Per la gente di Ecatepec il volto per eccellenza della fede è la religiosità popolare: fiori, acqua benedetta, candele, immagini dei santi. «Queste cose non si toccano, sono una base fondamentale – osserva padre Damiano -. Con la consapevolezza, però, che ci sono anche tante idee intrise di magia e superstizione da purificare. Quando sento dire che il Messico è un Paese cattolico sorrido… serve ancora un vero lavoro di evangelizzazione, aiutare a capire che il Vangelo non è un libro né una filosofia ma una persona che vuole stare con te. La religiosità popolare è un punto di partenza, non un punto di arrivo: poi deve entrare Gesù. Ed è possibile attraverso una vicinanza che si manifesta nelle cose di ogni giorno».
Il volto di una comunità che a Ecatepec non è più solo il padrecito. «Qui in Messico – sorride – i laici sono ancora fermi all’Antico Testamento: l’idea diffusa è che non debbano pensare, solo eseguire ordini… E allora abbiamo cominciato a proporre un po’ di lectio divina, un po’ di formazione, qualche pagina dell’Evangelii Gaudium: si è aperto un mondo. Certo, mettersi in gioco poi costa, ma la differenza si vede. Sul nostro territorio abbiamo trovato tanti laici che aspettavano solo il momento giusto per mettersi al servizio. Soprattutto le donne. Se la Chiesa vuole incidere davvero qui deve fare riferimento a loro: cambiano il volto della famiglia, della società, del quartiere, entrano dove gli uomini non arrivano, instaurano relazioni. Ma noi missionari non abbiamo inventato proprio niente: il Signore qui stava già lavorando, aspettava solo chi aiutasse queste energie a emergere in superficie».
E tutto questo sta cambiando la Cartonera? «La nostra resta una delle zone più insicure di Ecatepec – risponde il missionario del Pime -. Ma le cose si mutano dal basso, conoscendo la gente, volendo bene e facendosi voler bene. Non siamo noi a cambiare i destini della storia, però tutto quello che possiamo dobbiamo farlo: chi si lava le mani come Pilato è un codardo. Le cose cambiano se noi siamo disposti a cambiarle. E a cambiare noi con loro».