È nato a Dakar il Museo delle civiltà nere: preserverà l’arte africana dalle origini a oggi. Come sognava Léopold Sédar Senghor.
Volete conoscere l’arte africana? Non andate in Africa. Sembra un paradosso, ma non lo è. Oltre l’80% del patrimonio artistico del continente, secondo gli esperti, si troverebbe in Occidente nei musei, nelle gallerie e nelle collezioni di privati. È il risultato di un vero e proprio saccheggio su larga scala, perpetrato in epoca coloniale dagli occupanti europei, complice il pregiudizio sull’incapacità degli africani di prendersi cura dei capolavori dell’arte, che sopravvive fino ai giorni nostri. In qualche caso, l’instabilità politica e le guerre finiscono per dare ragione a chi alimenta questo preconcetto. Basti pensare, per esempio, ai danni arrecati dai jihadisti nel 2013 ai preziosissimi manoscritti della biblioteca di Timbuctu, nel Mali.
Per fortuna, in Africa spira anche aria di cambiamento. Nel 2017, a Città del Capo, è stato inaugurato lo Zeitz Mocaa, un museo di arte contemporanea africana che è già diventato un punto di riferimento per artisti e studiosi. Quel che mancava era una sorta di Louvre o di British Museum, ovvero un’istituzione nata con l’obiettivo ambizioso di preservare l’arte africana nella sua totalità, dall’alba della civiltà ai giorni nostri. A colmare questa lacuna ci hanno pensato le autorità del Senegal, che nel dicembre scorso hanno inaugurato a Dakar il Museo delle civiltà nere (Mcn), frutto di un ambizioso progetto di respiro panafricano. È la realizzazione del sogno del primo presidente del Senegal Léopold Sédar Senghor – nonché padre del concetto di négritude insieme al martinicano Aimé Césaire – di creare un museo che raccogliesse le espressioni artistiche dei neri di tutto il mondo. Senghor lanciò quest’idea nel 1966, in occasione del primo Festival delle Arti Nere e sono serviti 52 anni per riuscire a concretizzarla.olete conoscere l’arte africana? Non andate in Africa. Sembra un paradosso, ma non lo è. Oltre l’80% del patrimonio artistico del continente, secondo gli esperti, si troverebbe in Occidente nei musei, nelle gallerie e nelle collezioni di privati. È il risultato di un vero e proprio saccheggio su larga scala, perpetrato in epoca coloniale dagli occupanti europei, complice il pregiudizio sull’incapacità degli africani di prendersi cura dei capolavori dell’arte, che sopravvive fino ai giorni nostri. In qualche caso, l’instabilità politica e le guerre finiscono per dare ragione a chi alimenta questo preconcetto. Basti pensare, per esempio, ai danni arrecati dai jihadisti nel 2013 ai preziosissimi manoscritti della biblioteca di Timbuctu, nel Mali.olete conoscere l’arte africana? Non andate in Africa. Sembra un paradosso, ma non lo è. Oltre l’80% del patrimonio artistico del continente, secondo gli esperti, si troverebbe in Occidente nei musei, nelle gallerie e nelle collezioni di privati. È il risultato di un vero e proprio saccheggio su larga scala, perpetrato in epoca coloniale dagli occupanti europei, complice il pregiudizio sull’incapacità degli africani di prendersi cura dei capolavori dell’arte, che sopravvive fino ai giorni nostri. In qualche caso, l’instabilità politica e le guerre finiscono per dare ragione a chi alimenta questo preconcetto. Basti pensare, per esempio, ai danni arrecati dai jihadisti nel 2013 ai preziosissimi manoscritti della biblioteca di Timbuctu, nel Mali.
Situata nella zona del porto, poco lontano dal capolinea dei traghetti per Gorée, l’isola della memoria della tratta atlantica degli schiavi, la nuova infrastruttura spicca per la sua forma tondeggiante, che evoca le abitazioni della Casamance, una regione del Sud del Senegal. Nella hall d’ingresso, un’enorme scultura che raffigura un baobab, firmata dall’haitiano Eduard Duval-Carrié, accoglie i visitatori. La superficie museale complessiva è di 14 mila metri quadri, ripartiti su quattro livelli, che includono anche un auditorium con 150 posti; può ospitare fino a 18 mila opere ed è al momento il più ampio spazio di cui dispone un museo in Africa.
L’esposizione è un viaggio nel tempo e nello spazio, che conduce dal cranio di Toumai, un ominide di circa sette milioni di anni fa rinvenuto nel Ciad, fino al presente, con le opere di artisti contemporanei come il maliano Abdoulaye Konaté, passando attraverso secoli di storia, che includono anche la diaspora africana nelle Ame-riche. Maschere rituali, sculture e statue, provenienti non solo dal Senegal ma da svariati Paesi africani, raccontano lo sforzo di costruire una narrazione unitaria e nel contempo sfaccettata, con l’obiettivo di mostrare il continente nero dando finalmente voce ai suoi abitanti e ai suoi eroi. Come El Hajj Omar Tall, combattente islamico senegalese, la cui spada è stata uno dei reperti più ammirati all’inaugurazione del museo, in quanto simbolo della resistenza alla colonizzazione.
La struttura è un regalo di Pechino, che ha pagato gli oltre 30 milioni di euro necessari alla sua realizzazione e l’ha progettata attraverso il Beijing Institute of Architectural Design, seguendo per sette anni i lavori. Se visiterete il Mcn, non sorprendetevi quindi di trovare le didascalie delle opere in francese e in cinese. Per il gigante asiatico, il costo del museo è un’inezia, di fronte ai 110 miliardi di euro spesi in Africa negli ultimi dieci anni, che lasciano presagire un ruolo cinese sempre più tentacolare nella gestione delle risorse e nelle economie di molti Paesi africani.
Il Museo delle civiltà nere non è solo un’orgogliosa celebrazione della creatività dell’uomo africano nella storia mondiale. Questa costruzione monumentale rappresenta anche un’opportunità lungamente attesa per rivendicare la restituzione del patrimonio artistico africano disperso nel mondo. L’obiettivo è mettere a tacere coloro che hanno difeso la conservazione dell’arte africana in Occidente perché in Africa non esisteva una sede idonea. «È una questione falsa», ha dichiarato a Le Monde Ibrahima Thioub, rettore dell’università Cheikh Anta-Diop di Dakar. «La risposta al problema è già stata data dagli africani, che hanno prodotto queste opere e le hanno conservate per secoli in ottime condizioni, fuori dai musei».
Il primo a muoversi è stato il presidente francese Emmanuel Macron, che nel 2017 aveva dichiarato in un discorso a Ouagadougou il suo desiderio di avviare un programma di restituzione temporanea o definitiva ai Paesi d’origine delle opere africane in Francia. Per farlo, ha incaricato due studiosi, la francese Bénédicte Savoy e il senegalese Felwine Sarr, di redigere un rapporto sull’argomento, reso noto nel novembre scorso. «Non si può godere di un’opera d’arte che ci piace in un museo, ignorando la sua storia nascosta, di appropriazione spesso violenta», ha detto Savoy in un’intervista alla televisione francese.
Secondo Sarr e Savoy, vanno restituiti gli oggetti sottratti in un contesto militare prima del 1899 (data della prima convenzione dell’Aja sul diritto bellico), quelli presi da spedizioni scientifiche o consegnati da amministratori coloniali e quelli acquistati illegalmente dopo il 1960. Sono escluse le opere acquisite legalmente, con il consenso libero e documentato delle parti, e quelle comprate da un gallerista nel rispetto delle norme internazionali. I musei francesi hanno circa 90 mila opere africane: c’è da domandarsi cosa accadrà. Macron ha dichiarato di voler consegnare al Benin 26 manufatti, che saranno collocati in quattro nuovi musei. Oltre al Senegal, altri Paesi potrebbero reclamare il maltolto. E non solo dalla Francia: il patrimonio artistico africano è custodito anche a Berlino, Vienna, Londra e in Belgio. Intanto, il Mcn ha dato la sua disponibilità a ospitare eventuali opere restituite a Paesi africani che non hanno sedi museali adeguate.