Esempio di convivenza pacifica, il Burkina Faso è stato colpito negli ultimi anni da diversi attentati terroristici. La Chiesa locale sta reagendo attraverso la tolleranza, come spiega il cardinale Philippe Ouedraogo.
«Non c’è pace senza vero dialogo. E il dialogo è possibile solo attraverso l’attenzione all’altro, alla sua cultura, tradizione e religione». Il cardinale Philippe Ouedraogo, arcivescovo di Ouagadougou in Burkina Faso, è un grande artigiano della “fraternità universale”, «un compito e una responsabilità che spetta a tutti – dice -. Perché tutti siamo figli di Dio e l’incontro con l’altro non si può costruire sull’ambiguità o sulla menzogna. L’altro non è un nemico, ma un compagno di viaggio e il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti».
Abbiamo incontrato il cardinale – uno di quelli individuati da Papa Francesco alle estreme periferie del mondo – a margine dell’iniziativa “Uomini e Religioni”, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio a Bologna, dove ci ha parlato del travaglio che sta vivendo il suo Paese, accerchiato e spesso colpito da gruppi terroristici di stampo fondamentalista. Al punto che il presidente Roch Kaboré ha dichiarato, il 31 dicembre, lo stato di emergenza in dieci regioni. E proprio in Burkina Faso sarebbe stato trasferito e nascosto anche padre Pierluigi Maccalli, rapito il 17 settembre in Niger; e qui sono scomparsi lo scorso 15 dicembre due giovani, l’italiano Luca Tacchetto e la canadese Edith Blais.on c’è pace senza vero dialogo. E il dialogo è possibile solo attraverso l’attenzione all’altro, alla sua cultura, tradizione e religione». Il cardinale Philippe Ouedraogo, arcivescovo di Ouagadougou in Burkina Faso, è un grande artigiano della “fraternità universale”, «un compito e una responsabilità che spetta a tutti – dice -. Perché tutti siamo figli di Dio e l’incontro con l’altro non si può costruire sull’ambiguità o sulla menzogna. L’altro non è un nemico, ma un compagno di viaggio e il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti».on c’è pace senza vero dialogo. E il dialogo è possibile solo attraverso l’attenzione all’altro, alla sua cultura, tradizione e religione». Il cardinale Philippe Ouedraogo, arcivescovo di Ouagadougou in Burkina Faso, è un grande artigiano della “fraternità universale”, «un compito e una responsabilità che spetta a tutti – dice -. Perché tutti siamo figli di Dio e l’incontro con l’altro non si può costruire sull’ambiguità o sulla menzogna. L’altro non è un nemico, ma un compagno di viaggio e il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti».
Eminenza, il Burkina Faso è sempre stato un esempio di convivenza pacifica e più in generale un Paese in pace. Ma in questi ultimi anni è stato segnato da alcuni gravi attentati di stampo islamista. Che cosa sta succedendo nel suo Paese?
«Stiamo facendo fronte a sfide enormi. Che riguardano la sicurezza, ma non solo. Sono quelle della povertà, della mancanza di lavoro, dell’istruzione e della sanità carenti. La gente ha molte attese e soprattutto i giovani vogliono tutto e subito. Ma non hanno una buona istruzione perché i genitori non possono permettersi di pagare gli studi dei loro figli. E poi non trovano lavoro e vivono di espedienti. Anche l’accesso alla sanità continua a essere un problema per molti. Ecco, queste sono alcune delle sfide che dobbiamo affrontare quotidianamente».
E poi c’è il terrorismo…
«In questi ultimi anni le condizioni di sicurezza sono peggiorate drammaticamente. Abbiamo conosciuto scontri e attacchi terroristici. La capitale è stata colpita tre volte con decine di morti. Questo ha traumatizzato la popolazione. Ma anche alla frontiera con il Mali e con il Niger si verificano spesso attacchi contro le postazioni delle forze di sicurezza, ma anche contro la popolazione civile. Alcuni mesi fa, un catechista e sua moglie sono stati rapiti dai terroristi, così come un pastore protestante con alcuni membri della sua famiglia. Sono stati liberati recentemente. Per non parlare del missionario italiano che è stato rapito in Niger e, dicono, sia stato portato in Burkina Faso. Questo per ribadire che la situazione della sicurezza è davvero molto preoccupante. Abbiamo bisogno del sostegno e dell’aiuto esterno per riuscire a vincere tutte queste avversità».
Ma chi sono questi gruppi terroristici che operano a cavallo delle frontiere?
«Non sempre sono ben identificabili. A volte, questi gruppi rivendicano gli atti terroristici. Altre non lo fanno ed è difficile sapere chi è questo nemico invisibile che perturba la pace sociale e la tranquillità delle popolazioni».
Sono implicati anche miliziani del suo Paese o si tratta di gruppi che vengono dalle nazioni vicine?
«Pensiamo che ci siano delle ramificazioni. Nella regione opera ormai da molti anni il gruppo terroristico Boko Haram, che estende la sua azione nefasta oltre i confini della Nigeria su tutta la regione. E poi, dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi, chi aveva le armi si è disperso un po’ ovunque in tutta l’Africa occidentale, che è stata inondata da ex combattenti venuti dalla Libia. Ci sono varie forze e vari legami anche con Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) soprattutto in Niger e Mali. Ma questo ha influenze negative anche sul Burkina Faso. Molti attacchi vengono dal Mali, anche se dobbiamo riconoscere che ci sono anche degli autoctoni, dei burkinabé che vengono reclutati da questi movimenti terroristici. E questo si può spiegare con la povertà, l’ignoranza, l’intossicazione ideologica che fa sì che anche miei connazionali si arruolino in questi gruppi per poi seminare violenza e morte tra la nostra gente».
Qual è lo scopo di questi gruppi che stanno destabilizzando il Sahel? Ci sono anche interessi economici, legati al traffico di droga, migranti e altro?
«È molto complesso. E infatti continuiamo a interrogarci sul perché di tutti questi gruppi. C’è certamente del fanatismo islamico: si parla di gruppi jihadisti, che vorrebbero espandere l’islam per farne la religione del mondo intero. Ma oltre a questa dimensione estremista e religiosa, ci sono gruppi che probabilmente perseguono interessi propri, socio-politici o economici. Questo non è da escludere. Ci sono certamente interessi sotterranei, che motivano tutte queste violenze di cui siamo vittime. Vediamo infatti che anche i musulmani non ne sono risparmiati. Non si può uccidere in nome di Allah uomini e donne anche nelle moschee. I tre attentati che hanno avuto luogo nella nostra capitale hanno ucciso anche molti musulmani, così come cristiani o seguaci delle religioni tradizionali. Noi non possiamo che deplorare questa violenza e sollecitare l’aiuto della comunità internazionale perché possa aiutarci».
Pensa che il G5, l’iniziativa antiterrorismo a cui hanno dato vita cinque Paesi del Sahel (Mali, Niger, Mauritania, Burkina Faso e Ciad), possa servire a qualcosa?
«Questi cinque Paesi si sono associati per lottare insieme contro il terrorismo. A livello internazionale ci sono stati grandi discorsi e molte promesse, ma non ne è seguito un sostegno adeguato. E il G5 da solo ha difficoltà a essere efficace sul terreno. Pensiamo che se ci fosse un po’ più di solidarietà internazionale potremmo mettere insieme le nostre forze per lottare contro la violenza e il terrorismo, perché nessun Paese può sfuggirvi singolarmente. Come dice un proverbio delle nostre parti: “Un dito, da solo, non raccoglie la farina”. Ci vogliono più dita. Per questo dobbiamo unire i nostri sforzi e i nostri mezzi finanziari per vincere questa enorme piaga che minaccia l’umanità».
In Burkina Faso ci sono sempre stati buoni rapporti tra le religioni. Questi attacchi stanno mettendo in crisi questo dialogo e la possibilità di vivere insieme pacificamente?
«La cultura locale è fatta di tolleranza e di accettazione dell’altro diverso da sé. Nelle famiglie abbiamo spesso persone appartenenti a religioni diverse. Anche nella mia famiglia, la maggioranza è musulmana, ma ci sono anche cristiani, sia cattolici che protestanti, e ci sono seguaci delle religioni tradizionali. Uno dei miei zii era davvero un grande leader tradizionale. In molte famiglie c’è questa differenza religiosa. In Burkina Faso abbiamo spesso matrimoni interetnici e interreligiosi. Sono molto numerosi, soprattutto nella capitale Ouagadougou. Durante la prossima Quaresima organizzerò un incontro di coppie interetniche e anche un pellegrinaggio nel nostro santuario mariano per incoraggiarle. Abbiamo un messaggio da trasmettere in termini di tolleranza e accettazione dell’altro che rappresenta davvero un modello di dialogo».
Anche a livello interreligioso?
«A Ouagadougou abbiamo un’associazione che è informale, ma che ispira molta fiducia a gran parte della popolazione. Noi leader religiosi musulmani e cristiani – sia protestanti che cattolici – ci siamo messi d’accordo per lavorare di concerto con i capi tradizionali, rappresentati in capitale dal Mogho Naaba, uno dei grandi dignitari del regno dei mossi, l’etnia maggioritaria. Siamo al servizio delle nostre confessioni religiose e siamo solidali con il nostro popolo. In caso di crisi o difficoltà la gente fa appello a noi: ci vede un po’ come dei saggi, capaci di contribuire al dialogo interetnico, interreligioso e sociale per la pace».
Le scuole cattoliche sono aperte a tutti. Questo significa che, sin dall’istruzione di base, si permette a bambini di diverse provenienze etniche e religiose di conoscersi e crescere insieme…
«Le nostre scuole sono davvero aperte a tutti, senza eccezione di provenienza etnica, religiosa o di condizione sociale. Per tredici anni sono stato in una diocesi del Nord, alla frontiera con il Mali, dove i cristiani sono solo il 10% della popolazione. Nelle nostre scuole primarie e secondarie, l’80% degli alunni sono musulmani. Vengono volentieri e noi volentieri li accogliamo. Ci sono anche protestanti e seguaci della religione tradizionale. La Chiesa cattolica ha aperto anche due università, a Ouagadougou e a Bobo Dioulasso, dove molti genitori desiderano iscrivere i loro figli perché le considerano serie e sanno che il livello di insegnamento è alto. Anche questo dice lo stile della nostra presenza di Chiesa, che vuole essere al servizio di tutta la popolazione senza distinzione di razza o di religione. E questo è veramente un segno di speranza per il dialogo interreligioso e per la pace nel nostro Paese e nel mondo»