Padre George Palliparambil, missionario del Pime, indiano, sta terminando il mandato come superiore regionale negli Stati Uniti. Ma non ha mai lasciato del tutto il Camerun, che continua a ispirarlo.
«Il Camerun è sempre nel mio cuore», esclama padre George quando gli chiediamo cosa gli ha lasciato la sua esperienza di missione in Africa. Quarantaseienne originario di Chennad, nello Stato indiano del Kerala, padre George Palliparambil oggi è superiore regionale del Pime negli Stati Uniti. Nonché un missionario fin nel profondo. Lo si capisce immediatamente da come racconta la sua storia: dalle sue parole emerge che nel suo percorso non sono mai stati importanti il dove, il come, il perché, ma solo gli ultimi, i più poveri tra i poveri. Una categoria che attira a sé con una tale forza da rendere secondario tutto il resto.
«Quando ho ricevuto la voca-zione avevo 15 anni; sapevo che volevo essere un missionario perché volevo andare tra i dimenticati, ma non avevo idea di cosa volesse dire davvero. Io volevo rimanere in India, allontanarmi da Chennad per qualche anno per poi tornare», racconta. Come ogni missionario che si rispetti già da giovane seminarista portava la barba lunga. Fu proprio questo dettaglio a favorire l’incontro – decisivo – con il Pime: «Un giorno stavo dando una mano per la celebrazione della Messa e padre George Thailammanal, uno dei primi indiani entrato nell’Istituto, mi scambiò per un sacerdote per via della barba. Gli spiegai che ero solo un seminarista, cominciammo a parlare e iniziai a capire che il vero missionario è quello che va fuori dal suo Paese».
A quel primo contatto ne seguirono altri, alcuni personali con il superiore regionale, che lo mandò a studiare in Italia, altri intellettuali, come la lettura dei testi di padre Gheddo. «È stato con i suoi libri che ho incontrato la vera missione: ho capito che non si può essere missionari per tre o cinque anni. O è per tutta la vita, o niente».
Una volta scoperto il carisma del Pime, chiedere di entrarvi fu naturale. Completati gli studi con un anno di anticipo, all’allora diacono Palliparambil fu chiesto dove avrebbe voluto essere destinato. «Ho risposto che sarei andato dove c’era più bisogno. Ho nominato la Papua Nuova Guinea perché sapevo che allora presentava molte difficoltà, c’era la malaria e nessuno voleva andarci. Ma mi hanno detto che era pericoloso e che era meglio continuassi a studiare. Poi me lo hanno chiesto una seconda volta e ho proposto il Messico, perché anche lì c’erano tanti problemi e pochi missionari, ma mi hanno detto di nuovo di continuare a studiare. Allora mi sono arrabbiato. Ho anche minacciato di lasciare l’Istituto: l’avevo scelto per andare in missione, non per studiare. Mi hanno risposto che se non avessi obbedito mi avrebbero mandato in Africa. “Benissimo!”, ho detto. E nel 2003, appena dopo l’ordinazione, sono andato in Camerun».
Padre George è rimasto nell’Estremo Nord del Paese africano per dieci anni. Dopo il primo periodo di inserimento è stato nominato parroco a Zouzoui, con una comunità composta da una decina di villaggi sparsi sul territorio. «Quando sono arrivato mi sono accorto che facevo fatica a ricordarmi i nomi di tutti. Perciò la prima cosa che ho fatto è stata visitare le famiglie. Tutte quante. Per tre mesi sono partito dalla mia capanna prestissimo, mi facevo trovare in un villaggio alle 8 del mattino e entravo in tutte le case, pregando insieme ai cristiani e chiacchierando con gli altri. La gente era sorpresa. Per loro io ero un ricco, mi dicevano: “Perché vieni a visitare noi poveri?”. Io rispondevo che Gesù viveva tra loro. E se ci viveva Gesù, che è il figlio di Dio, perché non potevo farlo io che ero un semplice prete?».
A Zouzoui padre George si è cimentato in tutte le attività tipiche del missionario, dalla costruzione di scuole alla formazione di paramedici, dalla fondazione della parrocchia all’attività pastorale, sempre coinvolgendo le persone. Anche economicamente, in modo che sentissero come “loro proprietà” quello che veniva realizzato. Ma, soprattutto, padre George ha cercato di costruire un’umanità migliore. «Mi sono subito reso conto che il pilastro delle famiglie erano le donne: se fossi riuscito a formare delle madri solide avrei ottenuto famiglie solide. Perciò ho creato un “gruppo donne” in cui facevamo formazione su tutto quello che poteva essere utile: economia domestica, cura dei figli, nutrizione, prevenzione delle malattie… Una specie di educazione alla vita. Quando gli uomini hanno visto il cambiamento delle loro mogli sono venuti da me e mi hanno detto: “Padre, non sappiamo cosa hai fatto, ma vogliamo farlo anche noi”».
Nel 2012, a turbare la relativa tranquillità della zona, comparvero dei piccoli gruppi di stranieri. «Non sapevamo da dove venissero. Erano musulmani, ma nessuno dei miei amici musulmani li conosceva. Ero preoccupato perché, invece di pregare nelle moschee, si ritrovavano in posti isolati e non si integravano. Si sentiva nell’aria che qualcosa stava per scoppiare». Quell’anno la Direzione generale Pime assegnò padre George agli Stati Uniti, decisione che lui accettò con la convinzione che dagli Usa avrebbe potuto continuare a servire Zouzoui, oltre a tante altre missioni. Solo dopo qualche mese, quegli “stranieri” si sarebbero rivelati per quello che erano, uccidendo, distruggendo e reclutando a forza. Era arrivato Boko Haram.
In Camerun c’erano 42 gradi e vivevo in una capanna. Quando sono arrivato a Detroit ce n’erano 22 sotto zero e avevo una stanza intera tutta per me. Quella stanza è stata il mio primo shock», racconta padre George. Nel Paese più ricco e potente del mondo la sua missione è cambiata nella forma, ma non nella sostanza. «A Zouzoui ho coinvolto la gente finché non ha iniziato a dire “la nostra missione” invece di “la missione del padre”. A Detroit faccio lo stesso: nel nostro Centro missionario stiamo inventando nuovi percorsi per rendere la Chiesa americana una Chiesa missionaria. È più difficile che in altri posti: gli americani sono generosi, ma ogni americano riceve almeno una richiesta di donazioni al giorno dalle tantissime organizzazioni attive. Il Pime rischia di passare per una di queste, quando invece ha qualcosa in più. Non sono in molti a fare la scelta di vivere con chi non ha niente. Io non nascondo che preferirei vivere nella precarietà di Zouzoui piuttosto che nella sicurezza di Detroit. Quando le persone si rendono conto che noi missionari diamo tutto, capiscono anche che forse loro non possono farlo, ma possono aiutare noi a farlo».