In sintonia con le incredibili risorse naturali dell’Amazzonia, le dimensioni dello spazio e del tempo assumono una connotazione totalmente diversa rispetto a quella che siamo abituati a vivere nelle nostre città.
L’ambiente in cui si vive ci segna e anche in Amazzonia l’acqua, la foresta, il calore modellano la vita. Nell’immaginario di molti ci sono due idee di Amazzonia: qualcuno la pensa come un luogo inospitale, pieno di rischi, popolato da una manciata di “uomini quasi primitivi”, altri la idealizzano come un paradiso terrestre. L’Amazzonia non è né l’una né l’altra cosa.
C’è la realtà urbana, con le due grandi metropoli, Manaus e Belém, con aspetti simili a quelli delle realtà urbane di tutto il mondo. E poi c’è la realtà del cosiddetto interior (interno), quella delle centinaia di migliaia di comunità riberinhas (termine generico per indicare quanti abitano lungo i fiumi), quilombolas (afro-discendenti, che finita la schiavitù hanno iniziato a riunirsi cercando di vivere riappropriandosi delle radici africane) e indígenas.
In Amazzonia non ci sono quasi strade e anche quelle poche sterrate che ci sono nella stagione delle piogge diventano strisce di fango impraticabili. Ci sono però migliaia di fiumi che rappresentano la principale via di comunicazione e questo ha una fortíssima influenza anche sul modo stesso di capire la vita. Tutto si fa al ritmo delle acque: il trasporto, la pesca, la piccola agricoltura familiare. E se oggi non è arrivato il barco (l’imbarcazione tipica per il trasporto di persone e merci) non importa: si aspetta, forse arriverà domani. Tutto trascorre lento, tutto ha un’altra dimensione; a segnare il tempo non sono le lancette dell’orologio o l’agenda degli appuntamenti, ma il sorgere e il tramontare del sole e i cicli delle acque con le piene e le secche.
La vita è semplice, fatta di poche cose, le case sono palafitte di legno che ciascuno costruisce con l’aiuto degli altri; non ci sono archittetti o ingegneri, ma la sapienza e la conoscenza tramandata di padre in figlio. Se chiedi ai riberinhos che cosa piace loro di questa vita, le risposte sono sempre simili: «Il silenzio. Alla sera mi siedo davanti al fiume e guardo le acque che scorrono. I rumori della natura, il vento, il canto degli uccelli, a volte di notte il verso del giaguaro. Qui è bello perché ci sono pace, tranquillità, pesco il mio pesce. Qui sono nato e qui voglio morire». È questa sapienza semplice a disarmare noi occidentali, mai soddisfatti di quanto abbiamo. Semplicità che sa gustare il tempo che passa, che sa guardare alla vita con profondità, che sa vivere la solidarietà, perché nell’isolamento di questi fiumi non si può vivere solo per sé; a volte ancora legata ai racconti mitologici della Cobra grande o del piccolo Curupira, che ben al di là di una qualsiasi superstizione, insegnano il rispetto per la Mãe natureza, la madre natura che molto piú grande di noi ci custodisce nel suo ventre e per la quale dobbiamo avere timore e tremore. Tutti aggiungono però che «una volta era tutto piú facile. Adesso quasi non c’è piú pesce, non ci sono più alberi, raramente si vede una coppia di arara volare. L’uomo sta distruggendo tutto».
Ed ecco allora uno dei motivi del Sinodo per l’Amazzonia. Accendere una luce su questo stile di vita, che ha così tanto da insegnare alla nostra società stanca e annoiata, dove tutto deve essere “mio e subito”, che ha perso il senso del saper aspettare e desiderare, che non sa più condividere per la paura di rimanere senza e non sa riconoscere la creazione come madre “che ci sostenta e ci governa”.