Da 27 anni in Repubblica Democratica del Congo, Chiara Castellani medico missionario, non rinuncia a dare concretezza al suo sogno: per i diritti, la salute, il senso civico e una vita dignitosa per tutti.
Quand’ero bambina, grazie ai contatti con il mondo missionario in famiglia e a scuola, ho iniziato a sognare di diventare un giorno missionaria pure io e di andare a lavorare in Africa. Volevo occuparmi dei malati di lebbra e volevo farlo alla maniera dei francescani, prendendomi cura di loro in tutti i sensi e facendoli sentire persone come le altre. Erano loro che mi avevano affascinata. Ma è stato mio padre che mi ha guidata verso la medicina, contribuendo così a concretizzare e ad arricchire il mio sogno. E quando fai qualcosa in funzione di un sogno, tutto diventa più facile e meraviglioso.
Ho incontrato molte altre persone che, nello stesso modo, stanno cercando di realizzare i propri sogni. Per loro come per me, ci sono stati momenti difficili o battute di arresto. L’incidente in cui ho perso il braccio destro, in particolare, sembrava un ostacolo insormontabile, invece si è rivelato un nuovo slancio, la rincorsa per volare più in alto.
Lo stesso è stato per papà Kikobo, la persona cara, con cui a un certo punto abbiamo cominciato un percorso insieme per il diritto alla salute e alla qualità della cura, per migliorare l’assistenza e ottenere l’accesso ai farmaci. Quando era supervisore del programma contro lebbra, tubercolosi e Aids, papà Kikobo ha cominciato a scoprire su se stesso i sintomi dell’Hiv. Siamo andati insieme a fare il test e insieme abbiamo visto il risultato. A quel tempo – era il 2002 – un test positivo significava una condanna a morte. I farmaci, che erano già disponibili in Europa e nel mondo ricco dal 1996, per noi non erano accessibili e non lo sarebbero stati sino al 2009. La sua prima reazione è stata: «Perché devo morire? Io non voglio morire. Aiutami a non farlo».
Per me ha significato dare un volto concreto e amico a quella che era già la grande battaglia della mia vita. E così, insieme, abbiamo cominciato a lottare non solo per trovare i farmaci che servivano a lui, ma perché tutti potessero averli. Tante volte avevo già denunciato la mancanza di medicine per altre malattie come quella del sonno o la tubercolosi, o l’impossibilità di acquistarle perché chi ne aveva bisogno era troppo povero per pagarle. Nel caso dell’Aids, in particolare, a causa dei brevetti, i farmaci erano tremendamente costosi e assolutamente improponibili per i malati africani. Perché il mondo ricco doveva potersi curare e i poveri potevano solo morire?
I poveri non sono un business interessante. Il farmaco per la malattia del sonno, ad esempio, ci è stato tolto bruscamente perché non era redditizio: poi ce lo siamo trovato “riciclato” come pomata depilatoria. Solo in seguito a questo siamo riusciti a ottenere che la casa farmaceutica, con i proventi di questa pomata, rimettesse in circolo il principio attivo per la cura della malattia del sonno.
Sono malattie che nel mondo ricco sono state debellate da tempo, ma in Paesi come il Congo purtroppo continuano a uccidere la gente. La tripanosomiasi viene chiamata malattia del sonno perché provoca una perenne sonnolenza che si converte in uno stato di demenza progressiva. I malati muoiono nell’arco di quattro o cinque mesi e nel modo peggiore perché provoca una devastazione del cervello. La malattia del sonno in certe zone del Congo fa ancora molta paura.
Con i farmaci dell’Aids è stata la stessa cosa. Abbiamo vinto la battaglia perché non siamo stati soli. I farmaci che oggi utilizziamo sono i generici per cui Nelson Mandela, che è stato il nostro più grande e illustre alleato, si è battuto in una lotta che ha coinvolto tantissimi sieropositivi e i loro familiari. Papà Kikobo è stato uno di loro. È l’amico malato per il cui diritto a vivere dovevamo batterci insieme. E allora abbiamo portato avanti questa battaglia e l’abbiamo vinta. Con papà Kikobo abbiamo fatto almeno 20 mila chilometri nei villaggi più sperduti della savana. Ci siamo regalati la moto nel giorno in cui si è laureato nel 2011 e da allora abbiamo cominciato a girare e l’obiettivo di questo nostro lavoro itinerante era quello di trasmettere una grande notizia: di Aids si vive e non si muore. È questo che papà Kikobo dimostra con la sua vita. Ha fatto della sieropositività dapprima una bandiera – quando si doveva combattere per avere i farmaci – e adesso la ragione della sua esistenza, quello anche che lo ha spinto a studiare, a laurearsi e anche a candidarsi per poter difendere il diritto ai farmaci e alla salute per tutti.
Ma papà Kikobo dimostra anche un’altra cosa a cui tengo moltissimo: aiutando i giovani e le donne a studiare si riesce anche a far crescere la coscienza del diritto. È quello che con grande fatica cominciamo a vedere in questo Paese anche in occasione delle elezioni per le quali ci siamo battuti tutti, soprattutto la Chiesa cattolica. Queste elezioni ci sono state negate per anni e purtroppo i giovani, i catechisti, le persone che sono uscite dalle chiese per manifestare sono state attaccate con gas lacrimogeni e, purtroppo, non solo con quelli. Ci sono state decine di persone uccise, arrestate o scomparse. Quanta gente continua a sparire dalle prigioni del Congo o prima di arrivarci? E poi si scoprono le fosse comuni…
Ma la Chiesa continua a parlare. Purtroppo non sempre succede. Quanti capi di Stato africani sono riusciti a ottenere senza troppe contestazioni un terzo o un quarto mandato o a restare al potere quasi a vita? Invece il presidente congolese Joseph Kabila che mirava a questo non ha potuto farlo, perché la gente è scesa in strada, ha protestato e ha difeso i propri diritti perché è cresciuta grazie allo studio e a quanto si è fatto in questi anni per creare una coscienza civile.
E’ stato fatto un lavoro enorme, specialmente all’interno delle comunità di base che qui chiamiamo comunità ecclesiali viventi, che si riuniscono tutti i venerdì. Insieme si commentava il Vangelo e si commentava il testo della nuova Costituzione prima che andasse al voto. Poi è stata votata dal 90% dei cittadini, perché la gente l’ha fatta propria e quando il presidente ha cercato di modificarla è stata tutta la popolazione che si è rivoltata. Certo, c’è ancora molto da fare. Ma è importante il fatto che si è creato un senso civico anche grazie alle Commissioni giustizia e pace che esistono in tutte le diocesi e si basano sempre sulla struttura delle piccole comunità cristiane, in cui si cerca Dio e si fa crescere una coscienza dei propri diritti e della propria dignità. È questa la vera liberazione degli oppressi in chiave africana. La vedo ogni giorno nei nostri ospedali. Quando sono arrivata in Congo nel 1991 ho visto nell’arco di poche settimane, nella capitale Kinshasa, morire un ragazzo per un’ernia strozzata perché non avevano voluto operarlo o un bambino di appendicite perché erano intervenuti troppo tardi sempre per ragioni economiche. Ho visto donne perdere il loro bambino o morire di parto perché veniva rifiutato il cesareo perché non potevano pagare. Adesso fatti di questo tipo fanno scandalo, comportano arresti, licenziamenti del personale sanitario.
Di questo processo si sono rese protagoniste specialmente le donne, grazie anche alla solidarietà di molti. Penso in particolare a Rita Levi Montalcini che ha aiutato più di 20 mila donne in Africa e almeno 1.800 da noi a Kenge, con delle borse di studio. Quando una donna studia, acquisisce la coscienza di essere un soggetto di diritto. È un processo irreversibile di maturazione delle coscienze, che ho vissuto in prima persona. Con Rita Levi Montalcini siamo state insieme una volta a Padova e lei ha raccontato il suo sogno così simile al mio. Voleva essere medico e andare a lavorare in Africa con il dottor Albert Schweitzer, ma non ha potuto per le ragioni storiche che tutti sappiamo: prima la persecuzione razziale, poi per la breve militanza nella resistenza, quindi perché si è rifugiata negli Stati Uniti e lì ha portato avanti la sua ricerca sino a ottenere il Premio Nobel.
Tornata in Italia per quelli che dovevano essere gli anni ultimi della sua vita, ha ritrovato il sogno che aveva custodito intatto sin dalla sua adolescenza. E così quegli ultimi anni sono stati particolarmente ricchi e una grande scommessa vinta. Perché le mie quasi duemila ragazze che – come molte altre – hanno avuto la borsa di studio e sono diventate infermiere, ostetriche o altro stanno portando avanti concretamente questo sogno. Alcune adesso sono nell’ospedale di Kimbau, dove non sono più io il direttore da diversi anni.
Attualmente c’è un medico donna ed è bellissimo arrivare a Kimbau e scoprire che le tariffe sono ancora alla portata della gente e chi ha situazioni di emergenza viene curato; è bello vedere che la qualità della cura è diventata un principio di base e che quel poco che ho saputo trasmettere in vent’anni di presenza continua a dare frutto perché il terreno ha mantenuto la stessa ricettività e perché la gente di Kimbau è fermamente convinta del proprio diritto alla salute. E oggi sono certa che questo cambiamento, piano piano, si potrà ottenere per tutto il Paese.