Nel febbraio 1870 i primi quattro missionari del Pime partivano per l’Henan, nel cuore della Cina continentale. Storia di una missione travagliata. E di un’amicizia che continua ancora oggi
Venticinque giorni di navigazione su due piccole barche risalendo la corrente del fiume Han, uno dei maggiori affluenti dello Yangtze, il “fiume Azzurro”. Giorno e notte lì dentro, con la Messa celebrata di prima mattina e il resto della giornata trascorsa a studiare il cinese. Esattamente 150 anni fa, nel febbraio 1870, iniziava così la storia della presenza dei missionari del Pime nella Cina continentale. Con quel primo gruppo di quattro padri guidati dal milanese Simeone Volonteri, a cui pochi mesi prima Propaganda Fide – il dicastero missionario della Santa Sede – aveva affidato l’incarico di pro vicario della provincia dell’Henan, la regione “a sud del fiume” (Giallo) come recita il suo nome, immenso territorio nel cuore dell’area che è considerata la culla della civiltà cinese.
È un anniversario importante questo che il Pime celebra nel 2020. L’inizio di un’amicizia profonda con la “Terra di mezzo” che avrebbe visto per più di settant’anni centinaia di missionari dell’Istituto spendersi nelle diocesi dell’Henan e poi anche dello Shaanxi. Un legame rinsaldato dalla testimonianza di ben sette martiri e degli altri che avrebbero vissuto l’esperienza del carcere negli anni più difficili. E che nemmeno l’espulsione di tutti i missionari, decretata dal governo di Mao all’inizio degli anni Cinquanta, avrebbe poi cancellato dal Dna del Pime.
Per questo vale la pena di provare a ritornare oggi a quell’inizio. Al primo incontro dei quattro missionari del Seminario lombardo per le missioni estere – come si chiamava allora l’Istituto – con il complesso mondo cinese. Il trentottenne padre Volonteri, cresciuto nella Milano dei fermenti risorgimentali, nel 1870 aveva già alle spalle dieci anni di missione a Hong Kong. E con lui – proprio dalla “perla dell’Oriente” – partirono per l’Henan i più giovani padri Angelo Cattaneo, bergamasco, Vito Ruvolo, di origini campane, e il siciliano Gabriele Cicalese. A Hong Kong dall’Italia i tre erano arrivati in dicembre dopo un viaggio insolitamente “breve”: poco più di due mesi, prodigio reso possibile dal canale di Suez appena aperto. L’8 febbraio si imbarcarono di nuovo con Volonteri alla volta di Shanghai; risalito poi per un primo tratto lo Yangtze, arrivarono ad Hankou nell’Hubei da dove sul fiume Han sarebbe cominciata la parte più lunga del viaggio. Solo il 19 marzo – «giorno della festa di San Giuseppe», come non mancarono di annotare – sarebbero poi sbarcati a Lahoekou, facendo da qui il loro ingresso nell’Henan. Che cosa trovarono in questa regione della Cina i primi missionari? Un territorio immenso, abitato da 30 milioni di persone, dove esisteva già una piccola comunità di circa tremila cristiani. Erano stati i gesuiti nel XVII secolo a tornare nell’Henan dopo che a Matteo Ricci era stato raccontato che per secoli a Kaifeng erano rimasti degli «adoratori della croce», verosimilmente discendenti dei missionari siriaci giunti già nel VII secolo nel cuore del Celeste Impero. Dopo le persecuzioni della prima metà del Settecento furono i lazzaristi, la congregazione francese fondata da san Vincenzo de Paoli, a farsi carico di questa missione che aveva il suo cuore a Jingang, un villaggio nei pressi della città di Nanyang. Nel difficile contesto cinese dell’epoca – ostile al cristianesimo come reazione ai tentativi di penetrazione coloniale delle potenze europee – avevano già pianto nell’Henan due propri martiri: Francesco Regis Clet nel 1820 e Giovanni Gabriele Perboyre nel 1840. E anche se nel 1860 la Francia, con la Convenzione di Pechino, aveva ottenuto dall’ormai debole dinastia Qing la libertà per la Chiesa di predicare e battezzare in tutto l’impero, nelle province dell’interno a dettare legge restavano amministratori e milizie locali il cui atteggiamento nei confronti dei cristiani spesso non era affatto mutato.
Quando dunque Propaganda Fide, dopo la rinuncia dei lazzaristi, affidò all’allora Seminario lombardo per le missioni estere il vicariato dell’Henan, i missionari sapevano di non andare in un posto facile. Vestiti con abiti cinesi, anche con la testa rasata e il codino secondo l’usanza locale, vivevano una vita poverissima: «Tre orride pareti di terra e paglia insieme impastate ed una quarta di pura carta formata da me stesso, costituiscono la mia, per altro, cara stanza – scriveva da Jingang padre Angelo Cattaneo -. Eppure, sono arcicontentissimo, né cangerei per tutto l’oro del mondo…». Un altro dei primi missionari, padre Vito Ruvolo, sarebbe morto di tubercolosi a soli 28 anni a pochi mesi dal suo arrivo. Da stranieri, poi, si trovavano a fare i conti con l’ostilità aperta dei letterati confuciani, incattiviti dalle evidenti mire coloniali delle potenze europee: padre Volonteri stesso nel 1873 dovette affrontare una pubblica umiliazione quando – recatosi a Kaifeng per discutere con le autorità di una casa acquistata dai lazzaristi a Nanyang ma mai potuta utilizzare a causa dell’avversione dei funzionari locali – si ritrovò in mezzo agli insulti di una folla minacciosa, sobillata dalle stesse autorità.
In un contesto tanto difficile fu il cuore dei missionari aperto verso tutti a scardinare i pregiudizi. Accadde in particolare durante l’esperienza della terribile carestia scoppiata nel 1877: le ancora povere strutture delle missioni diventarono rifugio e soccorso per tutti, grazie anche a una sottoscrizione promossa già allora in Italia da Le Missione Cattoliche, la rivista di cui oggi Mondo e Missione continua la tradizione. Questo cambiò radicalmente l’atteggiamento dei mandarini locali, grazie anche alla saggezza di Volonteri – dal 1873 ufficialmente vescovo di questa regione – che ebbe sempre cura di tenere le giuste distanze dall’abbraccio ingombrante e pericoloso delle potenze coloniali. Lo si sarebbe visto in particolare nel tragico frangente del 1900 quando la rivolta dei Boxers scatenò in tutta la Cina un’ondata gravissima di violenze contro i cristiani. A farne le spese direttamente, nel vicino Shaanxi, sarebbe stato padre Alberico Crescitelli, missionario del Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo per le missioni estere, l’Istituto romano che nel 1929 Pio XI avrebbe poi unito al Seminario lombardo dando vita così ufficialmente al Pontificio istituto missioni estere. Crescitelli, unico missionario del Pime a essere finora stato proclamato santo, morì martire proprio di questa persecuzione. Faceva parte di un altro gruppo di missionari che dal 1887 nel vicariato di Hanzhong aveva iniziato a far crescere una Chiesa dal volto cinese.
Quel bagno di sangue anche nell’Henan portò violenze e distruzioni, ma il grande merito di Volonteri – una volta ristabilita la pace – fu quello di non umiliare i cinesi con il pretesto degli indennizzi. Pur adoperandosi affinché i cristiani che avevano subito torti fossero ripagati, dimostrò l’apertura di sempre verso il Paese che lo aveva accolto. E questo gli guadagnò a tal punto la stima generale da vedersi riconoscere dall’imperatore l’onorificenza di «gran mandarino cinese», delle cui insegne andava molto fiero. Padre Volonteri sarebbe morto nel 1904 durante una delle sue innumerevoli visite pastorali nell’Henan, compiute macinando chilometri a bordo di uno scomodissimo carro. Il suo volto avrebbe comunque continuato a riassumere bene anche negli anni a seguire i tratti della presenza del Pime in Cina. Con le chiese, le scuole, gli orfanotrofi, gli ospedali realizzati al servizio della gente. Con l’attenzione alla formazione di sacerdoti e catechisti cinesi, capaci di incarnare il Vangelo dentro la propria cultura. Con il coraggio di missionari disposti a donare la vita senza riserve, fino anche al martirio: sarebbe successo anche nell’Henan nel 1941 con padre Cesare Mencattini e poi nel 1942 con mons. Antonio Barosi, vescovo di Kaifeng ucciso insieme ai padri Girolamo Lazzaroni, Mario Zanardi e Bruno Zanella; e ancora una volta con padre Emilio Teruzzi, in quello stesso drammatico anno. Tutte vittime di quella miscela esplosiva creata dall’intreccio tra la guerra civile combattuta da nazionalisti e comunisti, l’invasione giapponese, le scorribande di milizie sbandate che semplicemente approfittavano della situazione. Poi – con l’ascesa di Mao e della Cina comunista – anche per i missionari del Pime sarebbe arrivato il tempo dell’esilio: processati, incarcerati e poi espulsi a frotte tra il 1951 e il 1954. Erano gli anni in cui padre Ambrogio Poletti, missionario del Pime nella zona della diocesi di Hong Kong più vicina al confine tra l’ex colonia britannica e la Cina continentale, si recava quasi quotidianamente al ponte di Lo Wu ad accogliere i missionari di ogni congregazione scacciati dai comunisti. «Ne ho accolti più di tremila», avrebbe scritto nelle sue memorie ricordando quell’esodo.
E nelle diocesi che il Pime aveva fatto crescere nell’Henan e nello Shaanxi a quel punto che cosa è successo? «Per molto tempo non abbiamo saputo più nulla», racconta padre Giorgio Pasini, oggi superiore regionale del Pime a Hong Kong. «Solo negli anni Ottanta, dopo la Rivoluzione culturale, si è potuto scoprire che nonostante le distruzioni degli edifici e tutto quanto è successo le comunità cristiane erano sopravvissute e non avevano dimenticato i nostri missionari. E quando fu possibile rientrare almeno come turisti in Cina fu in particolare padre Giancarlo Politi a tessere di nuovo i contatti, portando aiuti e collaborando con le strutture locali per la formazione del clero».
In anni più recenti anche per alcuni missionari del Pime è diventato possibile tornare a essere presenti per qualche tempo come operatori sociali. «Padre Franco Mella, per esempio, da Hong Kong sia a Xuzhou sia a Kaifeng insegna come volontario nelle scuole per ragazzi sordomuti e ciechi – continua Pasini -. Ma come Istituto la scelta è stata quella di non guardare solo alle nostre ex diocesi onde evitare nostalgie o paternalismi. Così altri sono andati a Shanghai o a Pechino. E poi a Canton è nata la collaborazione con Huiling, l’ong cinese fondata da Teresa Meng Weina che si prende cura delle persone disabili. Un cammino che tuttora padre Fernando Cagnin e padre Franco Bellati continuano a seguire».
Ma la celebrazione di questi 150 anni può diventare l’occasione per immaginare forme nuove di presenza per il Pime nella Cina continentale? «Penso di sì, anche se su questo bisogna essere pratici – risponde il superiore regionale di Hong Kong -. Abbiamo imparato che in Cina oggi alcune cose si possono fare, domani chissà… La crescita però, nella regione del delta del fiume della Perle, di quella che si va profilando come un’unica grande area metropolitana da 70 milioni di abitanti intorno al ponte Hong Kong-Zuhai-Macao ci interpella. Molto dipenderà, però, da come si risolverà nei prossimi mesi la situazione di Hong Kong».