Sono polacchi, filippini, africani i nuovi cattolici che hanno rivitalizzato una comunità minoritaria in un mare ortodosso. L’arcivescovo di Atene Rossolatos ne parlerà all’incontro dei vescovi del Mediterraneo a Bari
Domenica mattina. Sul sagrato della cattedrale cattolica dedicata a san Dionigi l’Areopagita, nella centralissima via Panepistimiou, si affrettano i fedeli che arrivano per partecipare alla Messa. Ed è tutto un via vai di filippini, srilanchesi, africani e qualche fedele originario dell’Europa dell’Est. Il colpo d’occhio è eloquente per farsi un’idea del volto contemporaneo della Chiesa cattolica greca.
Da sempre minoranza in un contesto in cui l’identità ortodossa è strenuamente rivendicata come elemento fondante della nazionalità greca stessa – la gente si tramanda la memoria del ruolo svolto dall’ortodossia nel conservare la lingua e la cultura locali nei lunghi secoli di dominazione ottomana – i cristiani legati al Papa hanno visto la propria comunità cambiare pelle tante volte nella storia. Dai tempi dei veneziani e dei franchi, soldati, principi e commercianti, al passaggio al cattolicesimo di molti abitanti delle isole Cicladi, dagli anni duri sotto i turchi all’arrivo degli italiani nel Dodecaneso durante l’occupazione del secolo scorso, trent’anni fa i cattolici greci erano ridotti a circa 50 mila. Latini, ma anche appartenenti a diverse confessioni orientali.
Finché una serie di cambiamenti geopolitici e sociali fuori dai confini del Paese hanno recentemente rivoluzionato, per l’ennesima volta, le fattezze della comunità. E l’hanno portata a quadruplicarsi nei numeri. «Oggi, grazie alle migrazioni, pur con l’impatto della crisi economica che ci ha nuovamente decimati, siamo circa 200 mila fedeli», racconta l’arcivescovo di Atene monsignor Sevastianos Rossolatos, seduto nel suo ufficio le cui scalette d’accesso sono proprio a fianco della sede della Caritas nazionale, oggi in primissima fila nella gestione dell’emergenza profughi che mette a dura prova il Paese.
Pastore dai modi gioviali e sempre caloroso verso il suo gregge, monsignor Rossolatos, nato nell’isola di Siros, nell’Egeo meridionale, 75 anni fa e a capo dell’arcidiocesi dal 2014, è anche amministratore apostolico di Rodi e, dal 2016, presidente della conferenza episcopale greca, che conta quattro rappresentanti latini, uno bizantino e uno armeno. Normale amministrazione di una Chiesa abituata alla pluralità (tra i cattolici ci sono anche numerosi maroniti) e che vede il suo futuro condizionato proprio alla capacità di far convivere e armonizzare le differenze. L’arcivescovo lo racconterà durante l’incontro “Mediterraneo, frontiera di pace”, organizzato dalla Cei a Bari dal 19 al 23 febbraio, a cui parteciperanno oltre cinquanta vescovi dai 19 Paesi affacciati sul Mare Nostrum.
Monsignor Rossolatos, come è cambiata la vostra comunità negli ultimi decenni?
«Dopo la caduta del comunismo, la Grecia ha accolto centinaia di migliaia di immigrati cattolici dall’Est Europa: soprattutto polacchi ma anche molti albanesi, rumeni, ucraini. Le tensioni in Medio Oriente hanno poi spinto nella nostra terra libanesi, siriani, iracheni, mentre in molti sono arrivati dall’Africa subsahariana e dall’Asia. E hanno cominciato a rivitalizzare le chiese greche. Ad Atene le celebrazioni sono frequentate da indiani, srilanchesi e soprattutto numerosi filippini: questi ultimi sono ormai il 95% dei fedeli che fanno riferimento alla cattedrale, mentre in un’altra parrocchia del centro oggi sono di casa i polacchi e in una terza gli africani. A Salonicco, invece, l’anno scorso tra i bambini del catechismo c’erano cinque greci e 65 albanesi. Noi cattolici locali oggi non siamo più di 50 mila».
Quali sono le peculiarità di questa Chiesa?
«Prima di tutto è mobile e molto sparpagliata sul territorio, visto che gli immigrati sono dislocati in diverse zone della Grecia in funzione della ricerca del lavoro. Importanti comunità albanesi, per esempio, si trovano sia a Creta, dove i cattolici sono passati da meno di cinquanta negli anni Settanta a circa duemila oggi, sia a Patrasso e Corinto, dove abbiamo affittato due locali per far fronte alle esigenze pastorali. Sparsi nel Peloponneso ci sono circa settecento polacchi e a Nafplio anche il parroco è polacco, così da poterli seguire. Ma si tratta di una diaspora che ci è impossibile servire adeguatamente, per la mancanza di forze e mezzi materiali».
La vostra è una comunità multiculturale: quali sono le sfide che affrontate?
«Senz’altro quella dell’unità. Oggi numericamente prevale ancora la prima generazione di immigrati, e laddove questi si riuniscono in modo massiccio secondo la propria origine si stenta a creare una convivenza sia con i fedeli greci sia con quelli di altre nazionalità. Nelle parrocchie etnicamente e culturalmente miste, invece, si sperimenta più coesione. Un ruolo fondamentale sarà quello svolto dai giovani: i figli dei migranti già si sentono greci e nei gruppi giovanili parrocchiali cerchiamo di seminare questo stile di unità. L’obiettivo è quello di creare una Chiesa veramente cattolica, senza barriere nazionali. Ma non è semplice, anche perché le esigenze pastorali sono molto differenziate».
In che senso?
«Gli albanesi, per esempio, provenendo da un contesto di ateismo forzato, non hanno una cultura religiosa: hanno bisogno di essere catechizzati, spesso anche battezzati. Gruppi come i polacchi o i filippini, al contrario, hanno già una formazione solida, ma spesso tendono a restare chiusi nei propri confini culturali. Per quanto riguarda i greci, c’è il grande problema della secolarizzazione: la pratica religiosa oggi interessa forse il 20% dei cattolici, influenzati in questo anche dalla mentalità ortodossa, per esempio a proposito della diffusione dei divorzi e delle unioni irregolari».
Come portate avanti l’evangelizzazione?
«Fatichiamo, per la carenza di forze. Dagli anni Settanta abbiamo vissuto un crollo delle vocazioni e oggi io mi trovo con pochi sacerdoti di cui molti over 75. La metà è costituita da fidei donum stranieri. Appena nominato arcivescovo mi sono adoperato per fare nascere ad Atene uno dei seminari legati al Cammino Neocatecumenale: una realtà molto vitale e dal forte spirito missionario. Così, quest’anno abbiamo nove seminaristi, mentre un giovane è già stato ordinato sacerdote. Si tratta di un passo avanti importante, perché questi seminaristi, sebbene provengano da altri Paesi, hanno modo di imparare bene il greco e di conoscere dall’interno la cultura locale, per esempio affiancando i catechisti nelle parrocchie. E sono aperti a cercare linguaggi nuovi per proporre il messaggio del Vangelo».
Voi siete una piccola minoranza in mezzo a una maggioranza ortodossa: come vivete questa condizione?
«I rapporti sono tesi. Per la Chiesa ortodossa noi siamo semplicemente eretici e quindi i nostri sacramenti non sono validi. Nei matrimoni misti, per esempio, lo sposo cattolico deve essere battezzato di nuovo. A noi sacerdoti non è permesso celebrare nelle chiese ortodosse e, anche quando qualche metropolita più illuminato ci concede un luogo di culto per la Messa domenicale, dobbiamo celebrare fuori dal presbiterio. Il problema è un’atavica cultura di disprezzo e di paura nei confronti dei cattolici, tuttora sostenuta anche da tanti preti e teologi laici. Una mentalità che in passato generava anche situazioni di emarginazione nello spazio sociale e nei luoghi di lavoro e che si smussa solo laddove esiste una presenza cattolica compatta. Non dimentichiamo che, nell’ambito del Sinodo panortodosso del 2017 a Creta, i vescovi ortodossi di Grecia chiesero di non usare la parola “Chiesa” per riferirsi agli altri cristiani!».
La conoscenza diretta non smonta questi stereotipi?
«Qualche volta. Ultimamente capita che fedeli ortodossi vengano alla Messa nelle nostre parrocchie, a volte per ragioni di parentela o amicizia ma anche perché “finalmente” – come dicono loro – possono capire la liturgia, mentre nel culto ortodosso si usa la lingua del quarto secolo, oggi incomprensibile. Spesso fanno la comunione, malgrado il divieto della loro Chiesa. C’è chi legge qualcosa su internet e decide di approfondire. Oggi abbiamo anche un sacerdote venuto dall’ortodossia. Ma i gesti di ecumenismo che a volte vediamo nel resto dell’Europa, dove i cattolici sono maggioranza, qui restano impensabili. E pensare che le scuole cattoliche – ne abbiamo otto – sono considerate d’eccellenza e sono frequentate in maggioranza da allievi ortodossi. Molti politici e personaggi di spicco della società greca hanno studiato nelle nostre scuole».
E tutti condividete gli effetti nefasti della crisi economica…
«Certo. La situazione nel Paese resta gravissima, con centinaia di migliaia di disoccupati, giovani che emigrano “in Occidente”, come si dice qui, tasse esorbitanti. Noi, come Chiesa cattolica, fino a dieci anni fa eravamo quasi autosufficienti grazie alla valorizzazione di alcune nostre proprietà. Ma dopo la crisi le tasse che dobbiamo pagare sugli affitti sono passate da meno del 4% al 53% e siamo in grave difficoltà. Abbiamo incontrato alcuni parlamentari per spiegare loro il problema e nemmeno sapevano che, qui in Grecia, mentre lo Stato paga lo stipendio dei sacerdoti ortodossi, noi cattolici non riceviamo nulla!».
Nonostante tutto, la Chiesa è in prima linea nell’accoglienza delle centinaia di migliaia di profughi bloccati in Grecia per la chiusura delle frontiere europee: che cosa fate per questa gente?
«Già dagli anni Novanta la Caritas di Atene aveva creato un programma di aiuto per le necessità materiali dei migranti: oggi garantiamo ogni giorno un pasto a cinquecento persone, anche se rischiamo di chiudere per la mancanza di fondi. Dal 2015, poi, di fronte all’emergenza dei profughi, siamo diventati i capifila di una serie di progetti finanziati anche dalle Caritas straniere, dall’Onu e dal governo tedesco per soccorrere migliaia di disperati accolti nei campi in tutto il Paese. Ci sono anche molti cristiani e cattolici, discriminati dagli altri rifugiati per la loro fede. A fianco degli aiuti materiali, ci occupiamo dell’inserimento dei bambini nelle scuole greche e dell’insegnamento del greco e dell’inglese agli adulti. Cerchiamo di aiutarli ad ottenere i documenti, a trovare un lavoro, anche perché sarà difficile che l’Europa riapra le porte».
Come vedete l’Unione Europea dalla Grecia?
«L’Unione ci ha aiutati, anche sul fronte di alcune crisi politiche, ma sul tema dei migranti ha mostrato una grande incoerenza. Parla di solidarietà, ma i profughi continuano ad arrivare e dobbiamo gestirli da soli. Le stesse Chiese europee dovrebbero alzare la voce più chiaramente: dire che i flussi umani sono il frutto dei conflitti causati o sostenuti dall’Occidente, del commercio di armi delle grandi potenze, dello sfruttamento delle risorse dei loro Paesi o dell’appoggio occidentale a governi che opprimono i propri cittadini. Per parlare di pace bisogna dire la verità e condividere gli impegni. Spero che l’incontro di Bari possa dare un contributo in questo senso».