Dalla comunità come fulcro dell’identità del singolo alla responsabilità collettiva verso i piccoli: il complesso mondo della famiglia in Guinea Bissau resiste alla globalizzazione. Uno sguardo attraverso i proverbi
In Guinea Bissau i molti input che vengono dalla modernità, dalla tecnologia e dalla globalizzazione non hanno ancora scardinato il modello della famiglia tradizionale africana, che resta un pilastro importante nella vita quotidiana. Il modo migliore per addentrarsi in questa ricca realtà è lasciarsi guidare dalla sapienza guineana, cristallizzata nei detti e nei proverbi.
“La scimmia non salta senza portarsi appresso la coda”, si dice. Significa che, nella vita, portiamo sempre con noi un “bagaglio” che viene dal legame con il contesto in cui siamo nati e cresciuti, perché c’è sempre qualcuno o qualcosa che ci portiamo “appresso”. In Africa c’è questo concetto basilare che si chiama ubuntu: “Io esisto perché tu esisti; tu esisti perché noi esistiamo”, dove viene messo in risalto appunto l’elemento delle relazioni, il fatto che si è sempre inseriti in un contesto che dà vita. Come la ragnatela, in cui se tu tocchi anche un filo molto piccolo si muove tutta la rete, così è dei legami interconnessi all’interno di una famiglia. Si tratta di qualcosa di complesso e allo stesso tempo molto esteso, tanto che si parla appunto di “famiglia allargata”. E se è proprio vero, come recita un altro proverbio, che “Non ti arrampichi sull’albero a partire dai frutti, ma dal tronco”, così per conoscere una persona devi tornare alle sue origini: non si parte dalla fine ma dall’inizio. In Africa è molto importante sapere chi ti ha preceduto, tu sei parte di una storia che è venuta prima e una famiglia non si stacca mai dalle generazioni che l’hanno preceduta. Quando le persone si incontrano, anche se non si conoscono possono risalire, grazie al cognome, all’etnia e al lignaggio, che è importante.
Si dice anche: “La forza del pesce è l’acqua”. Ossia è l’ambiente che ti dà vita: ciò che ti fa esistere è ciò che c’è intorno a te. L’africano intende il suo nucleo come un contesto vitale, tanto che, per entrare in un cammino più ecclesiale, l’immagine utilizzata di solito è quella della Chiesa come famiglia di Dio, per riprendere questa mentalità e riportarla dentro un contesto di comunità.
In Guinea Bissau la famiglia non è il piccolo nucleo di mamma, papà e figli, ma ingloba i nonni, gli zii, i cugini e c’è un senso di appartenenza molto forte, per esempio i cugini sono equiparabili ai fratelli. La figura della madre stessa non è soltanto quella della donna che ti ha generato, ma può essere anche una zia, o una sorella maggiore che si è presa cura di te.
Questo concetto di famiglia allargata si amplifica nel caso in cui, come nel contesto balanta, vige la poligamia, per cui un uomo ha più mogli e, dunque, per i fratelli il papà è comune ma spesso la mamma non è la stessa. All’origine di questa tradizione c’è anche l’appartenenza a una società agricola, con la necessità di forza lavoro per la sussistenza. Un dettaglio che in Occidente può sorprendere è il fatto che, generalmente, sia la prima moglie, chiamata la “donna-casa”, a scegliere e proporre la seconda consorte del marito, vista la necessità di non avere poi incompatibilità caratteriali che minerebbero alla base la solidità del nucleo.
Ad “allargare” ulteriormente la famiglia sono gli antenati, i parenti che sono già morti. Nel mondo africano il visibile e l’invisibile si intrecciano, il naturale e il soprannaturale fanno parte di una stessa realtà. Anche gli antenati che non sono più visibilmente fra noi, dunque, sono presenti: un concetto vicino all’idea cristiana della “comunione dei santi”. Perciò all’interno della morança, lo spazio dove vive la famiglia allargata costituito da varie case che hanno in comune un anziano, c’è sempre una piccola capanna per gli antenati. Qui sono conservati attrezzi e oggetti legati al defunto, e i parenti vi si recano per compiere riti di intercessione. Se si verifica una malattia, o un lutto, ci si può anche rivolgere agli antenati che possono aiutare a comprendere la causa di questi avvenimenti.
Connessi alla famiglia guineense ci sono alcuni valori che possono farci riflettere. Innanzitutto la posizione dell’anziano: tante decisioni tuttora sono suo appannaggio, si dice che “l’anziano seduto vede più lontano del giovane in piedi”, o anche che “il giovane corre più veloce, ma è l’anziano che conosce la strada”. A proposito dell’educazione dei figli, un bellissimo proverbio dice: “Il bambino quando è nel ventre materno è della famiglia, ma dopo la nascita è di tutto il villaggio”. Nel contesto rurale, un adulto, cioè una persona che abbia fatto i riti di iniziazione, può fare osservazioni a un bambino anche se non è suo figlio, perché il piccolo è responsabilità di tutti. Sempre ricordando che “il piede dietro guarda a quello davanti”, ossia le generazioni passano e chi oggi si trova “dietro” domani si troverà “davanti” con la responsabilità di essere riferimento per i più piccoli.
Un altro detto, da ben interpretare, afferma: “Se oggi non fai piangere tuo figlio, sarà lui domani a farti piangere”. Interessante verità che spiega il senso di disciplina, piuttosto forte, che si respira in Guinea Bissau. Concedere tutto a un figlio accontentandolo sempre non lo aiuta a resistere di fronte ai sacrifici e ostacoli che la vita gli presenterà. E qui mi collego al tema dell’iniziazione. Nel contesto tradizionale africano un bambino viene accompagnato nelle fasi di crescita fino al punto in cui diventa adulto. Questo passaggio viene fatto a tappe, sono previste esperienze, momenti ben precisi in cui il ragazzo apprende le cose importanti della vita. Divisi in gruppi per fasce d’età, i più grandi si prendono cura dei più piccoli. Crescendo, si fanno esperienze man mano un po’ più impegnative, fino ad arrivare al momento che traghetterà all’età adulta, chiamato fanado. Si tratta di un’iniziazione in cui il giovane entra per due mesi in un contesto sacro della foresta insieme agli anziani iniziati, viene istruito e circonciso. Questo metodo educativo marca una certa gradualità: si cresce iniziàti dai più “grandi” ai quali il minore si deve affidare. Sono infatti gli anziani a scegliere i ragazzi pronti per il fanado. Il momento dipende dalle etnie, può essere già a 15 anni, o anche prima.
Anche le ragazze attraversano diverse tappe di crescita. Varie figure di donne più grandi educano le bambine, per loro poi non c’è l’esperienza nella foresta, ma l’iniziazione corrisponde alla preparazione al matrimonio. Nell’etnia balanta, la ragazza fa il rito del sara: viene tenuta per alcune settimane (oggi alcuni giorni) nella casa dove è cresciuta, vengono fatti uscire gli uomini, le donne più anziane tengono dei momenti di formazione con la giovane, che impara i valori cardine della tradizione, come comportarsi con il marito o come allevare i figli.
In un contesto allargato, in particolare quando vige la poligamia, anche il conflitto è inevitabile. La saggezza africana dice: “Il dente e la lingua abitano insieme, ma a volte capita che si mordano”. L’importante è la riconciliazione. C’è tutto un processo per fare pace, la responsabilità dei più anziani è quella di unire le parti, sanare la situazione.
Oggi naturalmente capita di rivolgersi al tribunale, ma la tradizione resta importante. Ad esempio, un’osservazione fatta in pubblico è un affronto molto forte, è opportuno invece chiamare privatamente l’interessato, farlo sedere e parlare con lui. Così, fra marito e moglie, le discussioni avvengono nel cortile più interno della morança. Anche per una famiglia cristiana ci sono figure importanti come il padrino o la madrina di battesimo e i testimoni di nozze: sono loro a sostenere la coppia se emerge qualche problema.
In un contesto in cui si vive tutti insieme diventa fondamentale la collaborazione, e anche i figli, in base all’età, sono coinvolti nei lavori di casa: non sorprende vedere una ragazzina di 13 o 14 anni che cucina già per tutti, o un ragazzino che insieme al papà comincia a coltivare l’orto. Molto interessante poi è il rapporto mamma-bambino. Per i primi due anni di vita c’è una simbiosi molto forte, un legame fisico costante. Superata questa fase, però, la mamma si stacca ed emergono altre figure educative, di solito le zie o altri parenti. La scelta del nome, che ha tutta una sua cerimonia, non necessariamente è compiuta dai genitori. Tradizionalmente il nome veniva dato tenendo conto della situazione che la famiglia stava vivendo: un momento di felicità o di lutto, magari una vergogna per uno scandalo. Anche oggi, il nome con cui si viene chiamati dentro casa è più importante di quello, più occidentale, riportato sulla carta d’identità.
Se la nascita è un momento fondamentale, così lo è la morte. Tutta la rete famigliare si ritrova al funerale, una celebrazione che, dopo il momento della sepoltura, continua per alcuni giorni. La famiglia si ritrova anche per capire come colmare la perdita, soprattutto se è venuta a mancare una figura importante come il papà, la mamma o il fratello maggiore. La prima cosa è decidere: questi bambini a chi faranno riferimento adesso? Se ne discute finché, ad esempio, un figlio viene affidato alla sorella maggiore, che lo porta a casa sua e lo adotta a tutti gli effetti. Forse così alcuni choc legati alla perdita di un genitore sembrano in questo modo più attutiti.
In questo contesto si inserisce il cammino di fede cristiana. Alcune famiglie che praticano la religione tradizionale, infatti, oggi si trovano con figli che stanno cominciando il cammino cristiano.
In una realtà in cui l’aspetto spirituale è fortissimo e onnipresente, nella decisione entra in gioco anche tutta una serie di reazioni dentro il nucleo domestico. Di solito sono buone, perché tutto ciò che avvicina a Dio è comunque da benedire. Tuttavia, le difficoltà sorgono quando c’è un’incompatibilità tra fede cristiana e riti tradizionali. Chi sta compiendo l’iniziazione cristiana, per esempio, sa che a un certo punto non potrà più partecipare a certe cerimonie. Questo stacco, per un giovane guineano, è molto forte, e prendere le distanze dai legami è faticoso. È importante, allora, che si tenga aperto un dialogo tra giovani e anziani, per permettere alle nuove generazioni di rinegoziare il proprio rapporto con la tradizione, senza rinnegarla.