Migliaia di profughi con diritto alla protezione rifiutati dall’Italia alla fine del cammino lungo la via balcanica tra le violenze della polizia. Ma a Trieste c’è chi si prende cura di quelli che riescono a passare il confine
Umar è un giovane sorridente. Viene dal Pakistan, da una zona turbolenta al confine con l’Afghanistan dove spadroneggiano i talebani. La sua espressione mite non lascia immaginare l’inferno che questo 23enne dai capelli corvini ha attraversato prima di arrivare a Trieste, da secoli aristocratica città di confine sulla soglia dell’Oriente e oggi via di passaggio obbligata su quella rotta balcanica delle migrazioni tristemente nota per l’alto tasso di violenza e abusi che la caratterizza.
Umar l’ha percorsa e, purtroppo, nel corso dei diversi tentativi di attraversare il confine con l’Europa non si è risparmiato nulla di quelle vessazioni. Privato perfino delle scarpe, per ostacolare il suo cammino lungo i trecento chilometri dalla Bosnia all’Italia, tra le foreste di Croazia e Slovenia. E poi seviziato dagli agenti croati nel famigerato “garage delle torture” di Korenica, luogo di detenzione citato in numerose testimonianze raccolte dalle organizzazioni umanitarie (tra cui la rete di Border violence monitoring), situato nella stessa stazione di polizia.
La documentazione sulle gravissime responsabilità delle forze dell’ordine croate nelle violenze contro chi cerca di oltrepassare la frontiera bosniaca per raggiungere l’agognata Europa (patria dei diritti umani…) è ormai sterminata: non solo racconti ma anche foto, video, referti medici che rivelano di uomini pestati a sangue, vessati, a volte violentati. Le fotografie della gamba di Umar, completamente carbonizzata dopo le torture con una sbarra di ferro incandescente, danno il voltastomaco. Lo scorso febbraio, però, lui è riuscito infine ad arrivare in Italia, dopo l’ennesimo “game” – il viaggio attraverso la dorsale balcanica che i migranti chiamano “il gioco” per l’assurda casualità del suo esito -, durante il quale l’amico con cui camminava lungo i sentieri del Carso è scivolato in una dolina ed è morto sotto i suoi occhi.
Il cinismo con cui l’Europa lascia alle sue “porte” balcaniche il lavoro sporco di ricacciare indietro migliaia di disperati che restano così bloccati in Bosnia senza prospettive (secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni al momento ce ne sono circa ventiduemila) non è una novità: il primo rapporto di Amnesty International risale al 2018. Ora, però, nel sistema di respingimenti illegali a catena è stata chiamata in causa anche l’Italia. Accusata – prove alla mano – di fermare arbitrariamente al confine con la Slovenia gruppi di individui pronti a chiedere la protezione internazionale.
«È una situazione vergognosa», denuncia Gianfranco Schiavone, triestino e vicepresidente di Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione. «Secondo le norme europee le forze dell’ordine sono obbligate ad accettare le richieste d’asilo presentate alla frontiera e il diritto internazionale vieta il respingimento verso territori in cui la vita o la libertà del migrante sarebbero minacciate. Eppure, in barba alle leggi, i dati ufficiali parlano di 1.321 riammissioni in Slovenia, come si definiscono in termini tecnici, nei primi dieci mesi del 2020». Il nostro Paese, insomma, lascia fare il “lavoro sporco” agli agenti sloveni e poi croati, indietro fino alla Bosnia o alla Serbia.
«Ma in questo modo siamo apertamente complici! – si scalda Schiavone -. «Lo scorso giugno come Asgi inviammo una lettera aperta al ministero dell’Interno per chiedere chiarimenti, ma l’unica presa di posizione ufficiale del governo è arrivata attraverso la deposizione alla Camera del sottosegretario Achille Variati, che confermava i respingimenti anche dei richiedenti asilo – una dichiarazione aperta di illegalità! – in nome di un accordo di riammissione bilaterale con la Slovenia risalente al 1996. Un accordo dalla dubbia legittimità e dalla cui applicazione sarebbe comunque escluso chi chiede protezione».
Uno svarione, quello del Viminale, corretto solo informalmente dalla ministra Luciana Lamorgese a settembre durante un’intervista. «Ma la situazione, nei fatti, non è cambiata di una virgola: vengono rimandati indietro afghani, siriani, iracheni… tutti provenienti da zone ad alto rischio», afferma Schiavone, che è anche presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics), nato negli anni Novanta per accogliere i profughi della guerra nella ex Jugoslavia. Una realtà che è poi cresciuta e, insieme alla Caritas, ha contribuito a rendere per anni il sistema del Friuli Venezia Giulia un modello per la gestione del flusso migratorio. E che, per i “fortunati” che vengono lasciati entrare in Italia, resta ben organizzato.
A confermarlo è don Alessandro Amodeo, direttore di Caritas Trieste: «Noi lavoriamo a stretto contatto con la prefettura e la polizia di frontiera, a cui siamo in grado di fornire entro un’ora pasti, indumenti, pannolini e latte in polvere per qualsiasi numero di persone sia appena arrivato – spiega il sacerdote -. Come Caritas, inoltre, abbiamo duecento posti in strutture di medie dimensioni e in accoglienza diffusa, mentre Ics ospita altre ottocento persone in appartamenti».
In tempo di pandemia, poi, le emergenze si sono moltiplicate: «Il governo ci ha affidato la gestione dell’isolamento fiduciario dei richiedenti asilo, a cui garantiamo assistenza medica grazie alla collaborazione dei dottori volontari dell’associazione DonK Humanitarian Medicine». C’è chi, però, alle maglie di questo sistema sfugge. Si tratta dei cosiddetti “transitanti”, i numerosi migranti per cui Trieste e l’Italia rappresentano solo una tappa in un viaggio che non è ancora finito, e che ha per meta il Nord Europa. «La maggior parte di chi arriva qui punta a raggiungere parenti o conoscenti che già vivono in altri Paesi», conferma don Amodeo. Fino allo scorso maggio, questa gente poteva godere di servizi assistenziali di base per qualche giorno, il tempo di rifocillarsi e riprendersi da un viaggio allucinante, per poi ripartire. Ma, con il pretesto della pandemia, sia il centro diurno sia l’help center e il piccolo dormitorio sono stati chiusi e oggi i migranti che riescono a sfuggire alla polizia di confine si trasformano in fantasmi che bivaccano in condizioni disumane negli anfratti più nascosti della città, per poi scomparire di nuovo.
«La politica li chiama clandestini, ma sono persone dai corpi piagati e traumatizzate, che non hanno da mangiare e dormono al freddo: non potevamo voltare la faccia dall’altra parte»: a parlare è Lorena Fornasir (nella foto con Umar), psicoterapeuta di 67 anni che, insieme al marito Gian Andrea Franchi, ex docente di filosofia di 84 anni, ha fondato a Trieste l’associazione Linea d’Ombra proprio per prendersi cura di quelli di cui nessuno si occupa.
«Già dal 2015, quando cominciammo a vedere queste persone che portavano addosso i segni dei morsi dei cani aizzati contro di loro dalla polizia bulgara, ai tempi della prima rotta balcanica, abbiamo iniziato a recarci periodicamente in Bosnia per dare supporto ai volontari che assistevano migliaia di uomini, donne e bambini nei campi di Velika Kladuša e Bihac e nei dintorni». Quando, un anno fa, il primo lockdown li ha bloccati, Lorena e Gian Andrea non sono rimasti fermi. «Abbiamo deciso semplicemente di fare qui, nelle strade della nostra città, quello che facevamo in Bosnia». E cioè, prima di tutto, medicare i piedi orrendamente piagati di tante persone che arrivano con scarpe ormai lacere (quando le hanno) dopo un cammino che spesso è durato migliaia di chilometri. È nata così questa piccola associazione che oggi raccoglie oltre cinquanta aderenti e conta una ventina di operativi: giovani, professionisti, docenti universitari.
«Ogni sera ci raduniamo in piazza Libertà, di fronte alla stazione, e con l’aiuto dei medici volontari di StradaSiCura offriamo ai migranti cibo, indumenti e cure». Si forniscono poi informazioni legali, in particolare sulla possibilità di chiedere subito asilo politico. «Questi ragazzi però sono terrorizzati dalla polizia perché temono di essere rimandati indietro – testimonia Lorena -. Ho visto personalmente agenti far scendere da un treno alcuni minori per deportarli in Slovenia, mentre ricordo un ragazzo afghano che si era recato in questura per presentare domanda d’asilo e a cui era stato consegnato un foglio con l’indicazione di presentarsi il mattino seguente per perfezionare la sua pratica: ma appena arrivato, ha trovato ad aspettarlo le guardie che lo hanno espulso».
Eppure, volontari e operatori non rinunciano a tenere alta la bandiera dell’umanità, anche quando gli stessi concittadini li attaccano accusandoli di “deturpare il decoro urbano”. «Altri però ci sostengono, ci portano vestiti, sacchi di frutta», racconta Fornasir. E, quando si riesce a tessere la rete della fiducia, capitano tante cose eccezionali. Vite che, pian piano, riescono a scrollarsi di dosso i traumi e ricominciare, spesso mettendosi a loro volta al servizio dei più disperati. È capitato anche a Umar, la cui gamba ormai cancrenosa avrebbe dovuto essere amputata. Ma poi una chirurga plastica ha deciso di praticargli sedute gratis di laser e ozonoterapia, e gliel’ha salvata. E lui, che oggi vive in un appartamento come regolare richiedente asilo, ogni sera scende in piazza per fare da “infermiere” e interprete: «Per gli altri stranieri è una presenza rassicurante, aiuta a guarire le ferite, anche interiori, di chi non ha più fiducia in nessuno».