In Algeria ha vissuto l’esperienza dell’incontro specialmente con altre donne. Al Pisai di Roma, suor Marta Arosio, missionaria dell’Immacolata, ha approfondito la portata simbolica e religiosa che l’ospitalità ha nell’islam
Nei quattro anni vissuti a Mascara, nella diocesi di Orano, ha sperimentato soprattutto il dialogo delle cose semplici. Specialmente con le donne. Un’esperienza che ha permesso a suor Marta Arosio, oggi 39 anni, missionaria dell’Immacolata originaria di Lissone, di “assaggiare” la dimensione sociale, culturale e religiosa dell’Algeria, un Paese quasi esclusivamente musulmano. «Ho partecipato a un progetto della Caritas finalizzato alla formazione delle maestre di scuola materna. L’obiettivo era di fornire nozioni di psicopedagogia, ma anche insegnare alcune attività pratiche da realizzare semplicemente, ad esempio, con materiali di riciclo. In Algeria, i giochi costano molto e non sono necessariamente educativi. È importante dare ai bambini stimoli e strumenti che li aiutino a crescere. Ma è ancora più importante lavorare con le educatrici. Molte di loro non hanno alcuna formazione e di conseguenza le scuole materne spesso non hanno un vero progetto educativo».
Ma al di là degli aspetti più “professionali”, questa esperienza ha permesso a suor Marta di penetrare a fondo nel mondo delle donne. Gli incontri di formazione, infatti, rappresentavano non solo un momento di apprendimento, ma anche un’occasione importante, in cui le donne si trovavano in un ambiente in cui si sentivano libere di esprimersi e confrontarsi.
In quegli anni, suor Marta ha approfondito in particolare l’amicizia con una giovane donna con cui ha condiviso tanti momenti belli. «Un giorno – ricorda -, alla vigilia del suo matrimonio, quando non sapevamo se ci saremmo riviste, lei mi ha detto: “Tu sai che siamo sorelle. Ma sai anche che non potremo essere sorelle nella religione”. Era vero, ma ci sono rimasta male. Era come una ferita…».La religiosa ha continuato a riflettere su questo. «L’esperienza che ho fatto con lei era proprio quella dell’ospitalità. È l’esperienza di cui parla anche Christian de Chergé, il priore di Tibhirine rapito e ucciso insieme agli altri sei confratelli nel 1996, ovvero quella della Visitazione che è anche l’icona in cui si identifica l’intera Chiesa d’Algeria. Lei non mi ha mai chiesto di convertirmi e io non le ho mai parlato esplicitamente di Gesù o del Vangelo. Perché mi ha detto quella frase? È una domanda che mi è rimasta dentro».
Una domanda a cui ha cercato di rispondere anche nei successivi tre anni, in cui ha frequentato il Pisai, il Pontificio Istituto di Studi arabi e d’Islamistica, fondato nel 1926 dalla Società dei Missionari d’Africa (i cosiddetti Padri Bianchi, che sono nati proprio ad Algeri). La proposta le è giunta dalle responsabili delle Missionarie dell’Immacolata, che ormai da 12 anni sono presenti in Algeria con tre comunità e poco più di una decina di suore e che dal 2019 sono anche in Tunisia. Nessuna, però, aveva una specifica formazione sulle tematiche dell’islam, anche se le Missionarie dell’Immacolata sono in altri Paesi a maggioranza musulmani come il Bangladesh. Il Nordafrica, tuttavia, è un contesto molto diverso, anche a livello culturale e sociale, nonché nel modo di vivere la religione. Per questo, l’Istituto ha deciso di destinare una religiosa a studi specifici sull’islam e il mondo arabo.
«Man mano che andavamo avanti nella nostra presenza in questi contesti – riflette la missionaria -, ci sembrava una cosa sempre di più indispensabile acquisire una conoscenza approfondita di questa cultura e religione. E così ho affrontato questi studi: un’esperienza molto dura, ma anche bellissima e interessante, che mi ha permesso di avere uno sguardo diverso sull’islam, più aperto e allo stesso tempo più profondo. È quello che cercherò di ritrasmettere anche alle mie consorelle».
La tematica del dialogo e dell’accoglienza è stato centrale anche negli studi romani di suor Marta: «Volevo cercare di capire come l’islam potesse ospitare la religione dell’altro». E tutto il suo lavoro di tesi – che peraltro si intitola proprio “Il dialogo dell’ospitalità” – è incentrato su questo. Traducendo un testo inedito in Occidente del sufi egiziano ‘Abd al-Wahhāb al-Šaʿrānī, vissuto a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, suor Marta ha affrontato la tematica dell’ospitalità, facendo emergere la novità dell’apporto che il pensiero musulmano offre a un tema che caratterizza fortemente la società mediorientale sin dall’antichità. «La dinamica relazionale e comportamentale sottesa all’atto ospitale – precisa – ha sempre una portata simbolica e religiosa».
Attraverso aneddoti, fatti di vita, versetti del Corano, brani di poesia, hadith e molto altro, il testo di al-Šaʿrānī si è rivelato estremamente ricco di esempi e spunti che, da un lato, ponevano la legge come elemento centrale per orientare il comportamento dell’individuo, ma dall’altro enfatizzavano molto l’aspetto della pietà. «In sostanza – spiega suor Marta – l’uomo si interroga sul suo comportamento e cerca di sviluppare le sue virtù, attraverso pratiche come quelle dell’ospitalità».
«In questo – riflette – ho ritrovato molto del mio vissuto in Algeria. Ma mi ha permesso anche di comprendere cose che vanno più in profondità: ad esempio, il fatto che, dietro ogni azione, ci sono un valore religioso e una virtù a cui ogni musulmano è chiamato ad aderire e su cui è spinto a sviluppare il suo carattere. In sostanza, l’ospitalità è sì incontro, ma parla anche di ciò che si ha dentro, della propria fede».
E il dialogo in tutto questo? «Dall’incontro scaturisce sempre una fecondazione reciproca. E nell’ospitalità il dialogo è sentire quello che l’altro ha dentro di sé. E questo vale anche quando si tratta di religioni diverse. È questo il dialogo della vita, essere “religiosi” in ciò che si è e che si fa». MM