È una guerra che nessuno vuole vedere quella nell’Est della Repubblica Democratica del Congo. Lo stesso Papa Francesco non può recarsi a Goma, luogo-simbolo di un conflitto che si trascina da quasi tre decenni
«Il nostro Paese è in pericolo!». È un grido di allarme quello che il cardinale Fridolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa, aveva lanciato all’indomani dell’ultima assemblea plenaria della Conferenza dei vescovi della Repubblica Democratica del Congo (Cenco) che, peraltro, aveva pubblicato un documento dal titolo molto esplicito: «L’ora è grave!».
E, in effetti, nonostante lo strabordante entusiasmo con cui i congolesi stanno accolgliendo Papa Francesco, in visita nel loro Paese dal 31 gennaio al 2 febbraio (prima di recarsi in pellegrinaggio ecumenico a Juba, in Sud Sudan), la Repubblica Democratica del Congo vive, specialmente nelle sue regioni orientali, una crisi che si trascina da quasi tre decenni e che si è ulteriormente aggravata nell’ultimo anno. Al punto che la tappa di Goma, capoluogo del Nord Kivu, prevista originariamente nella visita papale, è stata cancellata.
Goma oggi è il simbolo di un conflitto interno e interregionale che vede implicati oltre un centinaio di gruppi armati nelle province del Nord e Sud Kivu e in Ituri: in particolare l’Allied Democratic Forces (Adf), un movimento islamista di origini ugandesi che opera specialmente nella zona di Beni-Butento; e il Movimento M23, che, sostenuto dal Ruanda, è arrivato a occupare un territorio vasto come il Belgio, accerchiando e minacciando il capoluogo del Nord Kivu.
Papa Francesco avrebbe dovuto celebrare la Messa poco distante da Goma, nei pressi del luogo in cui fu ucciso, il 22 febbraio del 2021, l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e al loro autista, Mustapha Milango. Lì avrebbe dovuto incontrare anche alcune vittime della violenza cieca di cui è vittima soprattutto la popolazione.
Una tappa mancata che, tuttavia, acquista un significato ancora più grande in questo viaggio, in cui Papa Francesco ha messo al centro il tema della riconciliazione, invitando tutti a «non lasciarsi rubare la speranza». L’ora, tuttavia, è davvero grave, come dicono i vescovi congolesi, secondo i quali «non dobbiamo dimenticare che, al di là delle risorse naturali, c’è il popolo congolese che ha bisogno di pace. Di che tipo di mantenimento della pace stiamo parlando quando i morti continuano ad accumularsi?».
La ripresa delle violenze perpetrate dal gruppo armato M23 – meglio organizzato ed equipaggiato non solo dell’esercito congolese, ma della stessa forza di stabilizzazione delle Nazioni Unite (Monusco) – ha provocato un drammatico aumento del numero dei morti civili e la fuga di centinaia di migliaia di persone (quasi 400 mila secondo l’Onu) che vanno ad aggiungersi ai 5,6 milioni di sfollati presenti nel Paese, il numero più alto in Africa e tra i più alti al mondo.
L’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr) ha chiesto «a tutte le parti in causa l’immediata cessazione di questa violenza insensata, che sta costringendo decine di migliaia di persone a fuggire. Chiediamo inoltre il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani per proteggere i civili e gli operatori umanitari dalla violenza e per garantire che i responsabili siano portati immediatamente davanti alla giustizia».
Nonostante questo e molti altri appelli, chi vive con la gente, come l’arcivescovo di Bukavu François-Xavier Maroy, continua purtroppo a testimoniare di «un ciclo infernale di violenze, perdita di vite umane, spostamenti massicci di popolazioni e distruzione del nostro tessuto economico e sociale. È la storia che si ripete!».
L’Est del Congo, infatti, non ha mai conosciuto vera pace da quando, dopo il genocidio ruandese del 1994, si è riversato in questa regione più di un milione di profughi. Qui, nel 1996, ha avuto origine la prima guerra congolese che ha portato alla caduta del trentennale regime di Mobutu Sese Seko; e sempre qui, con la seconda guerra cominciata nel 1998, si sono esacerbate le relazioni con l’ex alleato Ruanda. Oggi la tensione tra Kinshasa e Kigali è ai suoi massimi storici. Il governo congolese accusa quello del Ruanda di sostenere i ribelli dell’M23, forte anche di «prove concrete» raccolte da un Gruppo di esperti delle Nazioni Unite che documentano operazioni militari realizzate direttamente dall’esercito ruandese in territorio congolese e di sostegno all’M23. Nel rapporto si parla anche di bombardamenti indiscriminati, uccisioni di civili e attacchi alla Monusco.
Il presidente Félix Tshisekedi ha denunciato esplicitamente le «tendenze espansionistiche» del Ruanda che avrebbe «come principale interesse l’appropriazione dei nostri minerali. Per fare questo, sta lavorando a destabilizzare l’Est del Congo per creare una zona di illegalità al fine di soddisfare i suoi appetiti criminali». Il Ruanda, dal canto suo, oltre a negare ogni responsabilità, accusa Kinshasa di sostenere le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), gruppo armato composto principalmente di hutu di origine ruandese, presenti in Congo dal 2000.
Persino gli Stati Uniti, grandi alleati del Ruanda, hanno chiesto al presidente Paul Kagame di smettere di sostenere l’M23 e di operare per una pace necessaria e per una stabilità non più procrastinabile. Il segretario di Stato Antony J. Blinken ha chiarito che «qualsiasi sostegno esterno ai gruppi armati nella R.D. Congo deve finire, compreso il supporto del Ruanda all’M23» e ha inoltre espresso «profonda preoccupazione per l’impatto dei combattimenti sui civili congolesi che sono stati uccisi, feriti e sfollati dalle loro case».
Dal canto suo, l’Unione Europea ha invece approvato un provvedimento aspramente criticato: ovvero lo stanziamento di 20 milioni di dollari a favore delle forze armate ruandesi (Rdf), ufficialmente per sostenere il loro impegno in Mozambico contro i gruppi jihadisti presenti nella provincia di Cabo Delgado. Human Rights Watch ha chiesto a tutti i Paesi donatori di «sospendere l’assistenza militare ai governi che sostengono l’M23 e altri gruppi armati».
In Congo, si teme che questi fondi contribuiscano a esacerbare non solo il conflitto, ma anche il sistema ramificato di corruzione e sfruttamento delle persone e delle ingenti materie prime di queste regioni, in particolare oro, coltan e cassiterite, di cui il vicino Ruanda continua a profittare ampiamente, così come molti politici, militari e affaristi congolesi senza scrupoli.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dopo tanti anni di violenze e destabilizzazione che avrebbero provocato oltre 6 milioni di morti, l’Est del Congo continua ancora oggi a essere afflitto da inaudite violenze e dall’inarrestabile saccheggio delle sue risorse. E tuttavia – come denunciano sia le autorità civili che quelle ecclesiali – la comunità internazionale sembra non vedere. O non volerlo fare. La Conferenza episcopale ha definito senza mezzi termini «ipocrita» questo atteggiamento. «Come pastori del Congo che vivono a fianco della gente – ha rincarato la dose il cardinale Ambongo in una recente intervista a Radio Vaticana -, abbiamo amaramente constatato che la comunità internazionale è complice di ciò che è accaduto all’Est, per il semplice motivo che tutti sanno cosa sta succedendo. Ma si fa finta di non vedere…».
Allo stesso tempo, però, la Chiesa congolese ha ulteriormente ribadito la necessità di lottare contro l’impunità e la corruzione e di promuovere in tutti i modi la pace e la riconciliazione. Queste istanze – che diventano ancora più urgenti in questo 2023 in cui sono previste anche le elezioni generali – sono state portate nelle strade e nelle piazze di molte città del Paese lo scorso 4 dicembre su iniziativa della Conferenza episcopale e del Comitato laico di coordinamento (Clc) dei cattolici: «No alla balcanizzazione del Paese! No al saccheggio delle nostre risorse! No all’insicurezza!», hanno scandito i manifestanti: «La sovranità nazionale e l’integrità territoriale non sono negoziabili!».
«La nostra marcia – ha precisato il cardinale Ambongo – non ha alcun significato politico, è per mostrare al mondo che siamo un solo popolo, uniti per la causa nazionale, per la sovranità del nostro Paese e per la dignità del nostro popolo».
Ma per continuare a lottare i congolesi hanno bisogno ancora di tanto coraggio e speranza, un po’ più di unità e anche di attenzione da parte del mondo. «Noi congolesi – ha dichiarato il Premio Nobel Denis Mukwege, dopo l’incontro con Papa Francesco lo scorso dicembre – ci aspettiamo che la sua presenza contribuisca a sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sul dramma che il nostro popolo sta vivendo. Speriamo anche che con le sue preghiere e la sua voce possa contribuire a porre fine a questa tragedia».
Visita ecumenica a Juba
Sarà un viaggio breve ma denso di significato quello in Sud Sudan, dal 3 al 5 febbraio, anche perché Papa Francesco sarà accompagnato dall’arcivescovo di Canterbury Justin Welby e dal moderatore dell’assemblea generale della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields.
Insieme porteranno un messaggio di pace e riconciliazione in un Paese afflitto dal conflitto civile e da una terribile crisi umanitaria.