Iniziative diplomatiche, processi di pace, dispiegamento di forze militari… Nell’Est del Congo, tuttavia, molti sono convinti che prevalga ancora la volontà di dividere
«Per sradicare definitivamente l’insicurezza, ristabilire una pace duratura e garantire la stabilità nell’Est del Congo, diversi accordi sono stati firmati con gruppi armati e anche con i Paesi vicini sotto l’egida della comunità internazionale. Si sono creati meccanismi nazionali e internazionali. Ma tutte queste prospettive di risoluzione definitiva del conflitto sono durate lo spazio di qualche mese. Ben presto il castello di carte si è incrinato ed è crollato. E si è ripreso con le stesse tragedie».
È il duro messaggio che il presidente congolese Félix Tshisekedi aveva portato lo scorso settembre alle Nazioni Unite. Lo scenario da allora non è cambiato. Due iniziative diplomatiche e di pace, guidate dal Kenya – a nome della Comunità degli Stati dell’Africa Orientale (Eac) – e dall’Angola – che preside la Conferenza internazionale sulla regione dei Grandi Laghi (Icglr) – sono attualmente in corso. Ma i risultati sul terreno si vedono ben poco. Si vede però la presenza dei militari keniani, quasi un migliaio, schierati lo scorso 12 novembre per un periodo di sei mesi e una spesa di 36 milioni di dollari. Hanno affiancato i soldati burundesi ai quali si uniranno anche quelli di Tanzania e Sud Sudan. Già posizionati anche i militari ugandesi arrivati a supporto dell’esercito congolese in base ad accordi diretti tra Kinshasa e Kampala.
Nel Paese, e soprattutto nelle regioni dell’Est, sono presenti dal Duemila anche migliaia di militari dell’imponente Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (Monusco), spesso aspramente contestata dalla popolazione per la sua palese inefficacia. Al punto che, dal 6 maggio 2021, nel Nord e Sud Kivu e in Ituri è stato imposto dal governo lo stato di assedio.
Nonostante tutto questo dispiegamento di forze militari, continuano a proliferare gruppi armati di ogni genere. Ai colloqui di Nairobi, organizzati dall’ex presidente Uhuru Kenyatta, erano presenti i rappresentanti di ben 145 fazioni di ribelli. Se si aggiungono anche fenomeni di banditismo e gruppi criminali è facile immaginare il livello di caos, insicurezza e, spesso, di brutalità che devasta l’Est del Congo.
«La situazione che viviamo è il risultato di quello che è successo negli ultimi decenni nella regione dei Grandi Laghi – analizza Adrien Zawadi, presidente della Società Civile (Sc) del Sud Kivu, una vasta rete di associazioni di cittadinanza attiva molto impegnata e influente a vari livelli -. Non solo: è la conseguenza del fatto che l’economia e gli interessi di pochi hanno preso il sopravvento sul bene di tutti. In nome dei soldi si è pronti ad annientare la vita umana. Gli stessi politici congolesi non servono gli interessi della popolazione che li ha eletti, ma di chi vuole accedere alle nostre risorse minerarie».
Sono molti i piani che si sovrappongono e si intrecciano nel caos congolese: una situazione complessa, articolata e per molti versi incancrenita che è sempre più difficile da districare. «Non ho molta fiducia nelle iniziative diplomatiche e nei processi di pace avviati negli ultimi mesi – ammette Zawadi -, anche perché chi li promuove ha interessi e agende proprie da perseguire. Tutti i Paesi dell’Africa orientale, ad esempio, sono i primi a profittare della situazione di destabilizzazione delle regioni orientali del Congo. Penso che in questo momento prevalga la volontà di “balcanizzazione” del Paese; ci vorrà molto tempo perché si arrivi alla stabilità».
Quanto al Ruanda, il giudizio è durissimo, come spesso si sente tra la popolazione di queste terre: «Le mire egemoniche di Kigali sono evidenti, così come le logiche di estendere in qualche modo il territorio del Ruanda. Questa ossessione espansionistica è un grave ostacolo alla pace».
Anche Zawadi parla di «ipocrisia della comunità internazionale che usa due pesi e due misure rispetto ad altre crisi presenti nel mondo. La popolazione congolese si sente veramente abbandonata. È come se la comunità internazionale chiudesse gli occhi e la bocca; è come se qui si uccidessero delle mosche non degli esseri umani. Ci sono stati più di sei milioni di morti, ma tutte le richieste che sono state fatte in questi anni perché si creasse un tribunale penale internazionale sono cadute nel vuoto».
È una battaglia che, soprattutto in Sud Kivu, si sta portando avanti da molti anni. Qui le organizzazioni della società civile e la Chiesa cattolica rappresentano dei punti di riferimento molto importanti per la popolazione e sono molto attive sul fronte dei diritti e delle lotte per la giustizia sociale e nei processi di riconciliazione dal basso.
«Siamo delusi e tristi che Papa Francesco non sia potuto venire all’Est – ammette Zawadi -. Avremmo voluto che vedesse con i suoi occhi la miseria della gente, le donne vittime di stupri usati come armi di guerra, i massacri e i drammi che continuano nell’ingiustizia e nell’impunità più totale. Lo aspettavamo sia per avere il suo conforto spirituale ma anche perché siamo convinti che il suo messaggio sia l’unico che possa cambiare le cose. Crediamo che solo lui possa essere un vero ambasciatore di pace».