Il nuovo lavoro del Premio Nobel turco racconta gli ultimi atti dell’Impero ottomano, ma parla anche del nostro tempo, tra pandemia e populismi
Aprile 1901. Sull’isola di Mingher, immaginaria provincia ottomana lungo la rotta tra Istanbul e Alessandria d’Egitto, dilaga la peste: minaccia invisibile ma letale che rischia di mettere in ginocchio un Impero già da molti definito il «grande malato d’Europa».
Nell’ultimo romanzo del Nobel turco Orhan Pamuk, Le notti della peste (Einaudi, pp. 713, euro 25), si parla di un’epidemia che sconvolge un mondo fino a quel momento tranquillo, di nazionalismi e populismi che soffiano sul fuoco della paura, di regimi che scivolano verso l’autoritarismo con il pretesto della difesa della sicurezza e dell’identità. Scenari sorprendentemente attuali, sebbene la vicenda si dipani un secolo fa e Pamuk pensasse a questo libro da decenni. Ma i grandi scrittori – si sa – hanno la capacità di «raccontare le nostre storie come se appartenessero ad altri, e di raccontare le storie degli altri come se fossero le nostre»: a ribadirlo è la studiosa Mina di Mingher che, nella finzione letteraria scelta dall’autore, ricostruisce i fatti attraverso le centotredici lettere inviate alla sorella dalla principessa Pakize, nipote del sultano Abdul Hamid.
La giovane, fresca di nozze con il brillante medico Nuri Bey, sbarca sull’isola insieme al consorte, incaricato dal sultano di indagare sulla misteriosa uccisione del luminare infettivologo Bonkowski, che avrebbe dovuto disporre le misure sanitarie per fermare il morbo. Un delitto rivelatore delle tensioni che ribollono all’ombra delle cupole della chiesa ortodossa, di quella cattolica e della vicina moschea Nuova nel centro del capoluogo Arkaz, con le sue botteghe e i viali brulicanti di vita, destinati a rimanere bruscamente deserti.
La peste e la quarantena esacerbano lo scontro tra sceicchi musulmani e farmacisti greco-ortodossi, tra esigenze della scienza e credenze di fede, ma anche tra potere imperiale e autorità locali, tentate da spinte autonomiste. Mentre aumentano i contagi e i morti, al centro della narrazione emerge la paura, che si insinua nella vita della collettività e nell’intimità dei protagonisti, e riflette il timore del declino definitivo dell’Impero ottomano, stretto tra i giochi delle grandi potenze. Tra le pagine non mancano i riferimenti all’autocrazia dell’uomo forte della Turchia odierna, Erdoğan, ma Pamuk lancia anche un monito più generale alle nostre democrazie imperfette, chiamate a far fronte alla minaccia diffusa dell’autoritarismo.