Oggi avere a che fare con culture diverse non è più un’eccezione, «ma servono strumenti educativi adeguati», spiega Maura Di Mauro, autrice di un volume sul tema
Ci sono le classi “multicolori”, le famiglie miste in aumento, ma anche i giovani italiani che ormai si muovono con naturalezza oltre i confini nazionali per studio o per lavoro. Senza contare tutti noi, che grazie ai nuovi media e al turismo low cost ci sentiamo molto più connessi con il mondo rispetto a pochi anni fa.
Oggi, essere “cittadini globali” non è straordinario. Eppure, non tutti siamo preparati a gestire questa nuova condizione. «Quando si parla di formazione interculturale in automatico si pensa agli immigrati, come se le uniche persone a dover sviluppare competenze specifiche fossero “gli altri”. E invece, ognuno di noi è chiamato a coltivare competenze che ci aiutino a convivere e a imparare l’uno dall’altro, per saper agire in modo corresponsabile»: ne è convinta Maura Di Mauro, docente di Intercultural management all’Università Cattolica del Sacro Cuore e autrice, insieme a Bettina Gehrke, del libro Cittadini globali (edizioni la meridiana), che propone appunto una serie di “Strumenti didattici per la formazione interculturale”.
Se da una parte i minorenni stranieri in Italia sono oltre un milione e mezzo (ma il 76% di loro è nato qui), la generazione Erasmus ha contribuito a modificare l’atteggiamento verso la mobilità internazionale, considerata oggi un arricchimento del proprio bagaglio professionale, della rete di contatti e conoscenze, della propria esperienza, autonomia e apertura mentale. «Non possiamo più essere solo cittadini locali ma dobbiamo essere in grado di guardare al mondo – spiega Di Mauro – perché ciò che avviene altrove impatta più che mai sulle nostre vite: avere una comprensione di queste connessioni ci porta tra l’altro a evitare di giudicare senza prima capire la complessità delle situazioni».
In una società fluida come la nostra, tuttavia, costruire una rappresentazione della propria identità serena, integrata e matura non è un passaggio scontato, soprattutto per i nuovi italiani: «La frantumazione dei gruppi di identificazione primari si somma all’iperconnessione, che ostacola la capacità di riflettere su chi si è e chi si vuole diventare. Si sta creando una forbice tra i ragazzi che hanno le opportunità – incluse le adeguate condizioni socioambientali, famigliari ed educative – per sviluppare questa consapevolezza e quelli che non le hanno». Proprio nella carenza di tali opportunità affondano le radici i fenomeni di disagio tipici di chi non riesce a trovare un proprio posto nella società: basti pensare alle gang di ragazzini che rivendicano il background culturale delle loro famiglie con fenomeni di radicalizzazione, o ai trapper di seconda generazione spesso al centro delle cronache per episodi di violenza e criminalità. Ma anche – senza arrivare alla delinquenza – ai giovani che non studiano e non lavorano, i cosiddetti neet, tra i quali la percentuale di stranieri è preponderante, in particolare nel caso delle ragazze. L’educazione interculturale può offrire un contributo positivo?
«L’esperienza con gli operatori dei centri per l’impiego e delle agenzie per il lavoro ci ha mostrato di sì», risponde la docente. «Tra gli ostacoli all’ingresso nel mondo del lavoro, infatti, ci sono anche alcuni stereotipi applicati, a volte in modo inconsapevole, sia da chi deve selezionare il personale sia dagli stessi candidati: un fenomeno evidente nel caso delle donne, che assommano pregiudizi etnici e di genere ma assorbono anche modelli culturali e aspettative sociali del contesto di provenienza che creano credenze autolimitanti rispetto al proprio ruolo. Una formazione specifica del personale, allora, può offrire strumenti preziosi». Riconoscere i nostri privilegi ma anche le situazioni in cui, per esempio, ci siamo sentiti noi stessi esclusi ci aiuta a prendere atto della nostra identità mista e a ripulire lo sguardo da alcuni pregiudizi: «Ho constatato l’importanza di questi strumenti educativi in contesti molto diversi, con i giovani richiedenti asilo e rifugiati così come con studenti universitari di diversi atenei italiani».
Ma quali sono le principali competenze necessarie nelle società multiculturali? «Tutto parte dalla consapevolezza di sé, per essere poi in grado di relazionarsi con gli altri, anche con chi ha un background diverso dal nostro, in modo efficace, attraverso strumenti e stili comunicativi adeguati», chiarisce Di Mauro. Si arriva così alle competenze di cittadinanza globale, tra cui spicca la capacità di riconoscere le sfide che ci accomunano, a prescindere da dove viviamo, per raggiungere quegli “obiettivi di sviluppo sostenibile” fondamentali per tutti.
«Con un’adeguata formazione ognuno, secondo il proprio ruolo e la sua attività, potrà offrire un contributo per affrontare le ricadute a livello locale di alcune problematiche globali. Ma anche conoscere l’approccio di altre comunità alle stesse sfide, per compartecipare a trovare soluzioni efficaci e contribuire a creare un futuro migliore per tutti».
Il libro al Pime
Il libro Cittadini globali (la meridiana, pp. 152, euro 16,50) verrà presentato mercoledì 7 febbraio alle 18 al Centro Pime di Milano. Insieme a Maura Di Mauro interverrà la co-autrice del volume, Bettina Gehrke. Modererà l’incontro Diego Boerchi.
Info: www.centropime.org