Si intitola “Noi insieme” la prima rivista in cui i ragazzi delle comunità cattoliche del Bangladesh si raccontano in un Paese a stragrande maggioranza musulmana
Una rivista scritta dai giovani e per i giovani. Un’idea apparentemente semplice, ma che rappresenta una prima volta importante per la comunità cattolica di Dinajpur in Bangladesh. E sono pagine che oggi fanno brillare gli occhi a padre Fabrizio Calegari, missionario del Pime, che da tanti anni questi ragazzi accompagna quotidianamente nel loro cammino in un Paese dove i cristiani sono una piccola minoranza in un contesto a grande maggioranza musulmana. La rivista si chiama “Noi insieme”; è un bimestrale di 24 pagine a colori e sta diventando numero dopo numero un punto di riferimento per la pastorale giovanile nelle diocesi del Bangladesh. Proprio la formazione dei giovani è l’ambito a cui padre Fabrizio si sta dedicando da quando tre anni fa è rientrato nel suo Paese di missione dopo alcuni anni di servizio all’Istituto in Italia.
«Ai ragazzi la rivista piace perché il cuore sono le loro storie, il modo concreto in cui ciascuno vive il proprio essere cristiano in un contesto come quello del Bangladesh», racconta Calegari. Scorrendo le pagine di percorsi se ne incontrano davvero tanti e tra loro molto diversi. C’è chi fa l’operaio e chi il danzatore professionista, la ragazza che è diventata un’artista, il poliziotto, il calciatore che dalla squadra della missione è arrivato fino alla nazionale. Non poteva mancare nemmeno la storia di padre Dulal, originario di questa diocesi, che l’anno scorso è stato ordinato sacerdote per il Pime e ora vive il suo apostolato in Italia a Ducenta. Sono i percorsi delle ragazze e dei ragazzi delle comunità tribali che per poter frequentare la scuola lontano dal villaggio sono stati accolti negli ostelli della diocesi, realtà dove padre Calegari – in Bangladesh dal 1996 – ha vissuto a lungo il suo ministero di missionario.
«In uno degli ultimi numeri – racconta – abbiamo pubblicato la storia di Pius, un giovane che oggi è un fotoreporter professionista. Lavora per un sito di informazione locale, ma i suoi scatti sono stati pubblicati anche da grandi testate come il Guardian, la Cnn o il Wall Street Journal. A fotografare imparò con me in ostello: era uno dei gruppi di interesse che proponevamo ai ragazzi; lui si è talmente appassionato che ha frequentato una scuola a Dhaka e adesso questo è il suo lavoro. Fa fotografie bellissime, segue anche manifestazioni e contesti non semplici. Quando ci siamo visti gli ho chiesto: tu da cristiano come vivi questo tuo lavoro? Mi ha risposto citando il Vangelo e la gamcha (l’asciugamano) che ho consegnato a lui come a tutti gli altri quando lasciano l’ostello per prendere la loro strada. Lo faccio per ricordare che il giorno in cui siamo arrivati abbiamo lavato loro i piedi, che è un gesto tribale di accoglienza ma anche quello compiuto da Gesù; è un modo per dire loro che vogliamo vivere volendoci bene. Per questo Pius mi ha detto: non mi sono dimenticato della gamcha e del Vangelo. Cerco di vivere il mio mestiere di fotografo – ha aggiunto – facendomi voce di chi non ha voce, di raccontare con la fotografia chi soffre le ingiustizie. Queste sue parole mi hanno colpito: vi ho visto un frutto molto bello, maturato nella sua vita».
La sfida dell’educare come frontiera quotidiana, dunque. E che oggi vede i giovani cattolici di Dinajpur impegnati in prima persona attraverso la rivista, che è un modo per sostenersi a vicenda nel cammino di fede. Sulle pagine di “Noi insieme” non mancano gli spazi di spiritualità, con gli episodi del Vangelo raccontati in maniera semplice attraverso un fumetto, le riflessioni, le immagini delle iniziative della pastorale giovanile (compreso il piccolo gruppo che è arrivato fino alla Gmg di Lisbona).
«Quando arrivai in Bangladesh – ricorda padre Fabrizio – una delle cose che mi colpirono subito fu la folla dei poveri. Uno si chiede: che cosa posso fare per così tanta gente? Ce ne sono sempre, mi dicevo, non ho le forze sufficienti, non sono la persona adatta. Ma a un certo punto ho capito che, è vero, non potevo aiutare tutti, ma forse potevo aiutare qualcuno. E che potevo farlo con l’educazione: è l’ambito attraverso cui il Signore mi ha parlato di più in tutti questi anni».
Guardando indietro il missionario del Pime racconta di aver sperimentato negli anni trascorsi a seguire i ragazzi negli ostelli la dimensione della paternità: «Mi sono sentito davvero padre: il Signore mi metteva accanto a loro per camminare insieme. È un percorso: condivido quello che posso, ma ricevo anche tantissimo. E soprattutto camminiamo insieme dietro all’unico Maestro, che è il Risorto».
Ed è il senso anche del servizio che padre Calegari continua oggi nell’ufficio di pastorale giovanile della diocesi di Dinajpur. «Nel mio impegno missionario in Bangladesh – spiega – mi sono fatto un’idea molto forte: va bene ed è giusto offrire loro istruzione, mezzi, risorse economiche, possibilità di sviluppo. Ma se io missionario non dessi loro il Vangelo li tradirei. È l’unica cosa che io posso donare loro veramente. Immaginiamo che con una bacchetta magica potessi anche portarli a un livello di sviluppo, di educazione, di professionalità paragonabile a quello dell’Italia. Ma poi? Anche da voi non vedo in giro tutta questa felicità… Serve un centro da dare alla propria esistenza, una vita spirituale profonda. Altrimenti è tutto inutile».
“Noi insieme”, recita la testata della rivista dei giovani di Dinajpur. Ma con una meta ben precisa: l’amicizia con Gesù. «È quello che mi ha portato in missione – racconta padre Fabrizio -. E che mi tiene ancora qui».