In Kenya, Paese di Wangari Maathai, visionaria ambientalista e premio Nobel per la pace, i crediti di carbonio sono considerati «una miniera d’oro», ma con molte ombre
Come si dice carbon credit in lingua kiswahili? In mancanza di una definizione esistente, gli abitanti del Kenya ne hanno inventata una nuova. Che corrisponde esattamente a quello che molte comunità stanno sperimentando in questi anni. Crediti di carbonio si dice «hewa kaa», che significa, più o meno, «vendere aria». Nel bene e nel male. Perché in un Paese dalle mille contraddizioni, anche i progetti di compensazione delle emissioni di CO2 presentano aspetti molto controversi. E rimarcano una volta di più come, senza una gestione oculata, lungimirante e trasparente, anche iniziative come questa possono diventare una sciagura, invece che un’opportunità. Lo aveva già capito una pioniera come Wangari Maathai, che aveva portato avanti una coraggiosa lotta per la salvaguardia dell’ambiente, battendosi al contempo per i diritti delle popolazioni e in particolare delle donne, per la pace e la democrazia: perché, lo diceva già negli anni Novanta, non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale.
Ancora oggi, invece, a pagare il prezzo più alto di politiche solo apparentemente ecologiste – come il mercato dei crediti di carbonio – sono spesso quelli che già stanno peggio e che poco hanno a che vedere con l’inquinamento da gas serra. Nel caso del Kenya, ad esempio, sono le popolazioni ogiek che vivono nella Mau Forest e che sono state cacciate brutalmente dalle loro abitazioni date alle fiamme. Sul caso sono intervenuti congiuntamente Amnesty International, Survival e Minority Rights Group International, che hanno chiesto al governo di Nairobi di «chiarire se gli sgomberi degli ogiek siano collegati all’iniziativa governativa per lo scambio di crediti di carbonio su milioni di ettari in Kenya». «I progetti basati sulle foreste – sostengono le organizzazioni – sono particolarmente problematici perché spesso prendono di mira le popolazioni indigene e i loro modi di vita, piuttosto che i veri responsabili della crisi climatica. Sebbene vi siano prove sempre più evidenti che gli attuali schemi di compensazione non sono riusciti a mitigare il cambiamento climatico, essi hanno già avuto un impatto negativo sulle vite e sui diritti fondiari delle popolazioni indigene in Kenya e altrove». Le organizzazioni ricordano infine che «qualsiasi iniziativa di conservazione delle foreste collegata allo sgombero forzato delle popolazioni indigene è illegale e in violazione del diritto internazionale. Non possiamo proteggere il nostro pianeta senza riconoscere e rispettare i diritti dei popoli indigeni alle loro terre».
Il governo, tuttavia, non sembra particolarmente sensibile a questi appelli. Pare anzi più che mai intenzionato a “liberare” il più possibile spazi di foresta, in cui ogni singolo albero ha un valore in termini di crediti di carbonio. «Hanno il potenziale per assorbire milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, il che dovrebbe tradursi in miliardi di dollari», ha dichiarato il presidente William Ruto ai margini del vertice sul clima che si è tenuto nel settembre 2023 proprio a Nairobi: «Una miniera d’oro economica senza pari».
Ma tutto ha un prezzo e a pagarlo, appunto, sono soprattutto le popolazioni che da sempre vivono su terre che oggi fanno gola a molti, dentro e fuori il Paese. Il Kenya, infatti, come molte altre nazioni africane, è ricchissimo di foreste e biodiversità Ad oggi, però, l’Africa produce solo l’11% delle compensazioni mondiali di gas serra e vuole crescere molto di più. D’altro canto, non solo le compagnie petrolifere, ma anche giganti tecnologici come Meta o Netflix hanno la necessità di compensare le loro emissioni.
Il Kenya è stato tra i primi Paesi africani ad aver avviato progetti in questo ambito. E prima che entrasse in campo prepotentemente la Tanzania con i suoi immensi parchi, rappresentava circa il 25% del mercato del continente, con ripercussioni a livello locale di segno opposto. Esistono infatti anche casi positivi, come il progetto Mikoko Pamoja (“Mangrovie insieme”), la prima iniziativa a vendere crediti di carbonio derivanti dalla conservazione delle mangrovie e della biodiversità e che favorisce, allo stesso tempo, il miglioramento della qualità di vita degli abitanti dei villaggi di Gazi e Makongeni, sulla costa meridionale del Kenya. Un altro esempio positivo è quello di Kasigau, a circa 330 chilometri a Sud-est di Nairobi, dove le comunità vengono retribuite per mantenere intatta la foresta nell’ambito di un progetto di crediti di carbonio.
È invece alquanto controverso il Northern Kenya Grassland Carbon Project, in una regione poverissima e arida, dove vivono circa 100 mila persone, in particolare pastori turkana, samburu, maasai, borana e rendille (nelle foto), che in questi anni hanno subito pesanti perdite del bestiame a causa della prolungata siccità. Secondo il progetto avviato nel 2013, le comunità dovrebbero seguire un modello di “pascolo a rotazione pianificato”, che si tradurrebbe anche in un maggiore stoccaggio di carbonio e di crediti che potrebbero aggirarsi tra i 300 e i 500 milioni di dollari. Che – secondo un report di Survival International del marzo 2023 – non andranno certo in tasca ai pastori nomadi che oggi si contendono i pochi pascoli e la poca acqua rimasti. Mentre altri stanno «vendendo anche la loro aria».