Con un passo storico il governo di Hanoi ha invitato Papa Francesco a visitare il Paese. Parla il vescovo Anh Tuan che ha rappresentato la Chiesa locale al Sinodo: «Clima nuovo, più fiducia nei nostri confronti. Grazie anche alla solidarietà portata a tutti nella pandemia di Covid-19»
Sono una delle Chiese più vivaci dell’Asia di oggi, in patria come nelle sue tante diaspore. Ogni anno, sulle orme dei propri martiri, raduna decine di migliaia di giovani cattolici per il loro incontro nazionale. E presto – dopo decenni di grandi sofferenze – potrebbe accogliere anche la visita di un Pontefice. È il dono ricevuto nel Natale scorso dalla comunità cattolica del Vietnam, 8 milioni di fedeli in un Paese di oltre 100 milioni di abitanti. A quasi cinquant’anni da quando nel 1975 il regime comunista conquistava Saigon, aprendo una nuova stagione di persecuzioni per la Chiesa cattolica locale, le autorità di Hanoi hanno invitato ufficialmente Papa Francesco a recarsi nel Paese. Lo hanno fatto con una lettera inviata dal presidente Vo Van Thuong, che già nel luglio scorso si era recato in visita in Vaticano. Le condizioni di salute del Pontefice, per il momento, fanno pensare che un viaggio del genere non sia imminente. Ma già il fatto che il Vietnam non sia più una frontiera impossibile per il successore di Pietro è un fatto simbolico importante. Ed è il frutto di un percorso di riavvicinamento che ha visto grandi passi in avanti negli ultimi tempi.
Proprio alla vigilia di Natale, infatti, Papa Francesco ha potuto nominare ufficialmente un rappresentante permanente della Santa Sede in Vietnam, il diplomatico vaticano monsignor Marek Zalewski, che è anche nunzio apostolico a Singapore e ora potrà risiedere ad Hanoi. Un passo diplomatico frutto di un paziente negoziato bilaterale andato avanti per anni. E nel settembre scorso, proprio per sottolineare l’importanza del clima nuovo venutosi a creare, il Pontefice stesso aveva scritto una lettera ai cattolici vietnamiti nella quale – evocando «il coraggio nel lavoro, la tenacia nelle difficoltà, il senso della famiglia e le altre virtù naturali di cui ha saputo dar prova» il Vietnam nella sua dolorosa storia recente – Francesco li ha invitati a «rendere grazie a Dio con gioia, perché l’amore di Dio è eterno ed è fedele per sempre».
Come sta vivendo tutto questo la comunità cattolica vietnamita? E che cosa può rappresentare oggi la sua vitalità nella fede per il mondo intero? Lo abbiamo chiesto a monsignor Louis Nguyen Anh Tuan, 63 anni, che dopo essere stato vescovo ausiliare di Ho Chi Minh City (il nome con cui oggi è chiamata Saigon) dall’anno scorso è vescovo di Ha Tinh, nel Nord del Paese. Monsignor Anh Tuan è uno dei due vescovi vietnamiti che nello scorso mese di ottobre hanno partecipato al Sinodo in Vaticano, un appuntamento che la Chiesa cattolica locale ha voluto accompagnare indicendo per il 2024 un intero anno dedicato al tema della corresponsabilità dei laici nella vita e nella missione della Chiesa. «La gente è stata molto contenta di ricevere la lettera di Papa Francesco – racconta monsignor Anh Tuan -. Era la prima volta che si rivolgeva direttamente ai fedeli. Adesso aspettano di poterlo accogliere in Vietnam: nel nostro Paese aspettiamo il Papa da tanto tempo, già da diversi anni avremmo voluto invitarlo. Oggi questa visita la vuole anche il governo. E lo ha detto anche Francesco stesso, durante il viaggio di ritorno dalla Mongolia: “Se non potrò venire io in Vietnam, verrà Giovanni XXIV”».
Monsignor Anh Tuan parla espressamente di una situazione molto migliorata per la Chiesa in Vietnam negli ultimi anni. «Il gruppo di lavoro congiunto tra il Vaticano e i rappresentanti del governo ha lavorato con molta pazienza – spiega il vescovo di Ha Tinh -. E la recente visita del presidente in Vaticano con la firma dell’accordo sulla presenza del rappresentante permanente della Santa Sede ad Hanoi è stato un passaggio importante. Ci aspettiamo che aiuti a crescere le nostre attività pastorali. Già negli ultimi anni ci è stata data molta più libertà. E devo dire che l’evento traumatico della pandemia è stato un’occasione di crescita in questo senso. Soprattutto a Saigon, che è stata molto colpita, molti preti, suore, laici si sono spesi per l’assistenza alle vittime e il governo ha riconosciuto questo contributo. È cresciuta la fiducia nei nostri confronti. E penso sia stata un’occasione per offrire una testimonianza di fede attraverso le attività assistenziali».
Anche nella sua lettera ai cattolici vietnamiti Papa Francesco ha parlato della necessità di essere «buoni cristiani e buoni cittadini», lo stesso invito rivolto ai cattolici cinesi durante il viaggio in Mongolia. «Sono parole che il nostro governo ha molto apprezzato – commenta il presule -. Non solo i cattolici, ogni vietnamita deve essere un buon cittadino. Ma per noi è anche questa una via per testimoniare il Vangelo. Essere buoni cittadini oggi in Vietnam è essere buoni discepoli di Cristo».
Questa via può davvero essere un modello anche per le relazioni tra il Vaticano e la Cina? «È stato il Papa stesso a dirlo ai cinesi – risponde monsignor Anh Tuan -. Penso, però, che la situazione in Cina sia molto diversa da quella in Vietnam. La Cina è una nazione molto grande, il suo governo è forte, vuole controllare tutto. Il governo vietnamita, invece, ha bisogno del mondo, cerca l’aiuto delle altre nazioni nella sfera economica. Vuole dire che oggi il Vietnam è un Paese aperto e si fida dei cattolici. In Cina non è così. I due delegati giunti al Sinodo hanno dovuto ottenere il permesso dal governo della Repubblica Popolare Cinese, noi vietnamiti no: possiamo muoverci liberamente. Anche da noi fino a qualche anno fa andavano chiesti questi permessi, ma adesso non è più così: è una differenza fondamentale. Il Papa, dunque, ci ha indicato come modello, ma non sarà facile per la Cina seguirlo a causa del contesto diverso».
Lo sviluppo in un Paese come il Vietnam resta comunque una sfida aperta: «Il gap tra le grandi città e le aree rurali è molto grande – spiega il vescovo di Ha Tinh -. Nella mia diocesi vedo i giovani partire per Saigon, Hanoi, Da Nang, Hai Phong, ma anche per la Corea, il Giappone, la Malesia o gli Stati Uniti e l’Europa, dove poter guadagnarsi da vivere. Anche nella cura pastorale dobbiamo tenerne conto: educhiamo i ragazzi nella fede come un bagaglio spirituale da portare con sé ovunque si troveranno nel futuro. Ma la nostra Chiesa è ancora alla ricerca di soluzioni per la loro assistenza pastorale. Dobbiamo lavorare di più con le Chiese dei Paesi di destinazione, è anche questo un volto della Chiesa sinodale. Perché ovunque i cattolici vietnamiti poi si riuniscono come comunità, vivono la fede in maniera vibrante: in tanti lo confermano. Stiamo cercando di affrontare il problema, inviando con loro anche missionari che non siano solo per i vietnamiti ma al servizio delle Chiese locali dove si inseriscono. Un ministero ad vitam, reso possibile anche dal fatto che le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata restano tante in Vietnam».
Una ricchezza che è un segno della vitalità della Chiesa vietnamita. «L’anno scorso – racconta il presule – nella mia diocesi abbiamo avuto 105 candidati per il seminario, ma potevamo riceverne 30. Alcuni vescovi mandano quelli che non riescono ad accogliere in altri Paesi come la Nuova Zelanda o l’Australia. Le vocazioni restano tante, ma più nelle aree rurali che nelle città. Si può dare una lettura sociale di questo fenomeno: sono le aree più povere, le famiglie cattoliche lì sono molto più devote. Ma io guardo al significato spirituale: è il luogo dove il Signore chiama a servire il Regno di Dio. Del resto Gesù lo ha detto nel Vangelo: beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio».