Siria, che ne sarà dei curdi?

La più numerosa minoranza mediorientale controlla oggi un terzo del Paese: «Dopo il crollo del regime degli Assad, il futuro dipende dalle influenze esterne, ma il mio popolo resta un baluardo di pluralismo», afferma il regista Fariborz Kamkari
Erano i primi anni della guerra civile in Siria, iniziata nel 2011, quando le formazioni militari espressione della locale comunità curda, per decenni emarginata dal regime degli Assad, approfittarono del ritiro delle forze governative da vaste aree del Nord-est del Paese per creare un’amministrazione semi-autonoma in cui convivessero democraticamente i diversi gruppi etnici radicati nella regione, dagli arabi ai cristiani siriaci fino a turkmeni e armeni, circassi e yazidi.
Da allora, i combattenti curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf), sostenuti dagli Stati Uniti nella loro lotta in prima linea contro lo Stato islamico, hanno progressivamente ampliato il controllo su ulteriori parti del territorio dopo averlo strappato ai jihadisti. E così, quando lo scorso dicembre le milizie di Hay’at Tahrir al-Sham (Hts), supportate dai droni turchi, portavano avanti la loro storica avanzata verso Damasco, dove avrebbero rovesciato il regime di Bashar al-Assad, i curdi amministravano di fatto un terzo della Siria, dall’Eufrate verso Est, lungo i confini con Iraq e Turchia.
«Si tratta di una regione, divisa in quattro cantoni, in cui è stato applicato il modello del confederalismo democratico, secondo il quale ogni gruppo etnico ha ampi spazi di partecipazione e la diversità non rappresenta una minaccia ma una ricchezza»: a spiegarlo è il regista e scrittore curdo, di origine iraniana, Fariborz Kamkari, che alle lotte e alla tragedia del suo popolo ha dedicato diverse opere, dal film del 2010 I fiori di Kirkuk, ambientato in Iraq, al documentario Kurdbûn – Essere curdo, realizzato tre anni fa con le immagini dell’assedio della cittadina di Cizre, in Turchia. Sono diverse, infatti, le nazioni in cui la grande e antica “minoranza” mediorientale – circa 50 milioni di persone – è stata suddivisa all’inizio del secolo scorso: principalmente Turchia, Iraq, Iran e Siria, appunto. «Siamo il più grande popolo al mondo senza uno Stato», conferma Kamkari, da anni basato in Italia.
Ma come i massicci rivolgimenti di questi ultimi mesi in Medio Oriente impatteranno sulle conquiste politiche e militari dei curdi, a cominciare proprio dalla Siria? La situazione fluida sul territorio ha visto nelle scorse settimane diversi scontri tra le Sdf e i ribelli anti-Assad sostenuti dalla Turchia in luoghi strategici come Manbij e Deir ez-Zor, mentre migliaia di cittadini curdi si sono trovati costretti a sfollare dall’area di Aleppo. «Le dinamiche in atto sono tante e si intrecciano tra loro, passando per Ankara e Damasco fino a Teheran», premette il regista, che tuttavia, per inquadrare la situazione attuale, sceglie di fare un passo indietro.

«Come tutti i Paesi dell’area, la Siria rappresenta un mosaico di etnie, culture, lingue e religioni, accorpate in modo artificioso in seguito al crollo dell’Impero ottomano, quando inglesi e francesi, usciti vincitori dalla Prima guerra mondiale, ridisegnarono la mappa del Medio Oriente tracciando confini in modo arbitrario per creare Paesi che non esistevano, sul modello dello Stato nazione». Una mossa che però portò «gravi danni, perché per ogni Stato fu scelta una sola identità dominante, una sola lingua o etnia, a discapito di tutte le altre». Giocoforza, questo principio fu applicato «con la coercizione, attraverso le armi e l’eliminazione anche fisica degli altri popoli, perpetrata dai dittatori locali».
La comunità curda, in particolare, nella sua storia recente ha conosciuto molto bene la persecuzione, le discriminazioni e i tentativi di assimilazione forzata, e ha pagato a caro prezzo la sua aspirazione all’autonomia. «L’impossibilità di affermare i propri diritti attraverso la forza – spiega ancora Kamkari – ha spinto i curdi ad affinare la lotta e la consapevolezza politica, trasformandosi spesso in rappresentanti di formazioni solide e in punti di riferimento democratici nei diversi Paesi in cui sono sparsi. Ma anche, puntualmente, in capri espiatori per i tiranni di turno». La Siria degli ultimi decenni non faceva eccezione: nel 2009 un rapporto dell’Alto commissario Onu per i diritti umani affermava che «i governi siriani succedutisi hanno continuato ad adottare una politica di discriminazione etnica e persecuzione contro i curdi, con misure di esclusione su vari aspetti politici, economici, sociali e culturali». Per questo, l’Amministrazione autonoma dichiarata ufficialmente nel 2018 su 50 mila km2 (e 4 milioni e mezzo di cittadini), in cui vigeva tra l’altro la parità di diritti tra uomini e donne, ha rappresentato un traguardo cruciale, a cui la comunità non intende rinunciare oggi, di fronte al repentino – e cruciale – passaggio di potere in Siria.
«Per la prima volta da oltre sessant’anni il controllo del Paese è passato dal blocco sciita, a cui facevano riferimento gli Assad, a quello rivale sunnita: una svolta storica – afferma Kamkari – che tuttavia potrebbe prendere direzioni molto diverse. Lo stesso mondo sunnita, infatti, è suddiviso in correnti differenti e tra loro in opposizione, in particolare l’islam tradizionale, al potere in Paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, e l’islam politico, che fa riferimento alla Fratellanza musulmana, al governo in Turchia e Qatar. A questi due modelli si aggiunge poi quello salafita, in cui si riconoscono gruppi come l’Isis e al-Qaeda. Lo scenario futuro, dunque, dipenderà da quale di queste visioni concorrenti prevarrà».
Sebbene il leader dei ribelli oggi al potere in Siria, Ahmad al-Sharaa, abbia dichiarato che «se Dio vuole, i curdi saranno parte integrante dello Stato e tutti riceveranno i loro diritti secondo la legge», le prime nomine per il nuovo governo di transizione nel Paese non depongono certo a favore di un approccio pluralista e tollerante. Conferma il regista: «Non sono fiducioso, perché parliamo di un ex salafita, seppure oggi in giacca e cravatta. E comunque, al-Sharaa è un equilibrista, che si trova in mezzo a queste forze esterne contrapposte che ne determineranno le scelte».
In questo scenario, dobbiamo temere l’influenza della Turchia? «Di certo – ammette Kamkari – Ankara vorrebbe spazzare via i curdi, che considera fiancheggiatori del Pkk turco, dalle aree vicine ai suoi confini, dove vorrebbe invece re-insediare parte dei tre milioni di rifugiati siriani fuggiti in Turchia negli ultimi anni. L’Occidente, tuttavia, non può abbandonare completamente le forze curde che nell’ultimo decennio hanno combattuto l’Isis». Dalla sconfitta territoriale dello Stato islamico in Siria, nella primavera del 2019, sono proprio le Sdf a sorvegliare le prigioni e i campi in cui sono tuttora detenuti migliaia di combattenti islamisti insieme alle loro famiglie. Che, in prospettiva, dovrebbero passare sotto il controllo del nuovo governo.
«Il rischio di un ritorno sulla scena dei fondamentalisti tagliagole preoccupa diversi Paesi dell’area, in prima fila la Giordania e, naturalmente, Israele». Insomma, «il ruolo dei curdi in Siria, e nell’intera regione, resta chiave. E, nonostante l’incertezza sul futuro, i cambiamenti culturali che hanno saputo portare avanti sono destinati a rimanere, come patrimonio collettivo». Non solo. Proprio l’esperimento politico applicato nel Nord-est siriano, quel “Rojava” nato intorno alla leggendaria resistenza della città di Kobane all’assalto islamista, resta un modello importante per il Medio Oriente: «Il confederalismo è l’unica formula che può funzionare in un’area così plurale. Finché non si applicherà un sistema in cui far convivere democraticamente popoli tanto diversi, ci sarà sempre la guerra».
Articoli correlati

Oltre le divisioni

Missionarie e laici un legame vincente
