Nel Paese dove il pensiero libero è diventato il nemico pubblico numero uno, accademici e giornalisti, scrittori e attivisti lottano per tenere vivo, all’interno della società, il senso della giustizia e della democrazia
«Ogni individuo, ogni famiglia che vive in questa terra ha sofferto a causa di guerre passate e forme di violenza. Eppure, ciò che faremo di queste esperienze dipende da noi. Vogliamo trasformare il nostro dolore in altro odio e ingiustizia, o in passi che moltiplichino la vita, la bellezza, la pace e la giustizia?». Le parole pronunciate lo scorso 21 maggio da Ayşe Gül Altınay, brillante antropologa della Sabancı University di Istanbul, non erano rivolte ai suoi studenti, né al pubblico di qualche conferenza, ma alla corte che l’ha condannata a due anni e un mese di carcere. Il suo costante sforzo di spiegare i meccanismi dietro alla catena dell’odio che intrappola la Turchia fin dalla sua fondazione – che si tratti della questione armena o di quella curda, del militarismo o della mentalità patriarcale che continua a mietere vittime tra le donne turche – le è stato imputato come colpa, in un Paese dove il pensiero libero è diventato il nemico pubblico numero uno.
I giudici hanno stabilito che la professoressa Altınay ha offerto «sostegno a un’organizzazione terroristica» per aver sottoscritto, nel 2016, la dichiarazione “Non saremo parte di questo crimine” stilata da un gruppo di docenti e ricercatori universitari noti come “Accademici per la pace”. In quel documento, i 1.128 firmatari iniziali, presto arrivati a oltre duemila, prendevano le distanze dall’intervento violento dello Stato nelle regioni curde del Paese, il cui obiettivo avrebbe dovuto essere il terrorismo separatista ma che in realtà stava avendo ripercussioni pesantissime sulla società civile.
Da allora, quasi 700 tra i sostenitori della dichiarazione sono finiti sotto processo e più di 450 hanno perso il lavoro. E si tratta solo di una parte delle migliaia di accademici silenziati negli ultimi anni dal sistema sempre più autoritario istituito dal presidente Erdoğan, che ha portato alla chiusura di oltre cento università e prosciugato interi dipartimenti, come quelli di Giurisprudenza e di Scienze politiche all’Università di Ankara.
Gli studiosi non hanno certo l’esclusiva della repressione. Soprattutto dopo il fallito colpo di Stato dell’estate 2016, attribuito al predicatore in esilio Fethüllah Gülen e agli affiliati del suo movimento Hizmet, giornalisti e attivisti per i diritti umani, scrittori e insegnanti, editori e magistrati sono vittime dello stesso meccanismo malato di accanimento giudiziario e marginalizzazione che, di questi tempi, colpisce tutte le voci critiche delle politiche governative. In molti, loro malgrado, si sono trasformati in simboli della libertà di espressione violata e qualcuno è diventato familiare anche al pubblico internazionale, a causa di arresti eccellenti.
Resta invece in ombra il preziosissimo lavoro che tanti cittadini continuano, nonostante tutto, a portare avanti in questa Turchia in cui non si riconoscono più, rifiutando di farsi zittire e facendo di tutto per tenere vivo all’interno della società il senso della giustizia, della libertà e della democrazia.
A cominciare proprio dagli accademici. Perché se da una parte c’è chi si è rifugiato all’estero, mentre altri – “prigionieri” in patria a causa della sospensione del passaporto – hanno ceduto all’autocensura, dall’altra si moltiplicano le azioni collettive per fare fronte ai ricatti del potere. Da Istanbul ad Ankara, da Izmir a Şanlıurfa a Kocaeli sono nate le “accademie di solidarietà”, grazie alle quali professori espulsi dai propri dipartimenti tengono lezioni ai loro studenti in luoghi diversi dalle università.
Reti di mutuo aiuto connettono i docenti sia all’interno della Turchia, dove sono sorte piattaforme per condividere opinioni legali, fondi e contatti (ma anche offrire supporto psicologico), sia a livello internazionale. In Francia e Germania si cercano finanziamenti per favorire la partenza dei colleghi turchi più a rischio, mentre ad altri si offre l’opportunità di tenere corsi a distanza on line. Alcune organizzazioni, poi, inviano osservatori alle udienze degli intellettuali sotto processo e portano avanti campagne di pressione verso il governo turco.
Questa mobilitazione comincia a produrre qualche effetto. Lo scorso 26 luglio, la Corte costituzionale di Ankara ha sentenziato che la condanna di dieci “Accademici per la pace” firmatari del documento “Non saremo parte di questo crimine” viola la loro libertà di espressione. In seguito a questo pronunciamento sono arrivate le prime assoluzioni: a settembre quella della ricercatrice Özlem Şendeniz dell’Università di Iğdır, a ottobre quella della professoressa Füsun Üstel, nota storica e attivista che a maggio era stata la prima “Accademica per la pace” a finire in carcere.
Dietro le sbarre restano migliaia di dissidenti, o meglio semplici cittadini che per le loro prese di posizione sono considerati dal regime una minaccia alla stabilità: oltre 120 giornalisti, scrittori come Ahmet Altan, artisti (Zehra Doğan è rimasta in prigione due anni e dieci mesi), politici come il leader del partito filo-curdo Hdp Selahattin Demirtaş, imprenditori come Osman Kavala, in detenzione preventiva da più di due anni con l’accusa di aver tentato di rovesciare il governo di Erdoğan finanziando le proteste di Gezi Park del 2013. Personalità che, grazie alla loro resistenza, rappresentano un’ispirazione per tutta quella parte della società civile turca attiva nel tenere alta l’attenzione sulle violazioni dei diritti nel Paese.
«Siamo preoccupati per le conseguenze dell’operazione Sorgente di pace lanciata il 9 ottobre, che ha comportato la riduzione dei diritti e delle libertà, specialmente quella di espressione», ha fatto sapere un collettivo di dieci associazioni turche subito dopo il varo della campagna militare lanciata da Ankara nelle aree amministrate dai curdi nel Nord-est della Siria. Gli attivisti si sono detti allarmati per una serie di gravi episodi ai danni delle voci contrarie all’operazione, tra cui alcuni parlamentari che l’avevano definita «una guerra» – finiti subito al centro di indagini -, cittadini che avevano espresso dissenso sui social network ma anche gruppi come le “Madri del sabato”, che ogni settimana protestano nel centro di Istanbul per i propri figli o fratelli “scomparsi” nelle carceri turche.
Il collettivo ha anche suonato un campanello d’allarme sul tentativo di «linciaggio mediatico» ai danni di attivisti, ricordando che «in passato abbiamo perso note figure della società civile, giornalisti e difensori dei diritti in seguito a simili attacchi per dipingerli come terroristi». Il pensiero, naturalmente, va subito al grande giornalista turco-armeno Hrant Dink, assassinato il 19 gennaio 2007 fuori dalla redazione del settimanale che aveva fondato, Agos, nel contesto del clima d’odio fomentato contro di lui. Ma è proprio la Fondazione dedicata a Dink, vero profeta della riconciliazione nazionale, a rappresentare oggi uno dei presìdi più importanti del movimento che in Turchia promuove il dialogo e il confronto critico, attraverso attività rivolte ai giovani universitari, iniziative culturali e di valorizzazione del patrimonio comune turco, oltre all’importante Premio internazionale dedicato al giornalismo libero.
Uno sforzo condiviso da editori, come la fondatrice della casa editrice Metis Müge Sökmen, da anni in prima fila nella diffusione di testi su temi considerati “politicamente scorretti”, scrittori e giornalisti. In un momento in cui i media tradizionali sono sotto il controllo del governo, le piccole realtà senza padroni assumono un ruolo chiave. Prezioso, ad esempio, è il lavoro del network di comunicazione indipendente Bianet, che sfida la censura (le testate chiuse dopo il tentato colpo di Stato sono innumerevoli) occupandosi in modo specifico proprio di diritti. Il canale televisivo on line Medyascope, invece, uno degli esperimenti più interessanti del panorama post golpe, spazia dalla cronaca alla politica e dalla cultura alla scienza, con la sola regola dell’accuratezza nella verifica delle fonti.
Impossibile citare tutte le realtà che, dal mondo dell’arte a quello della cultura, sono oggi in prima fila per cercare di cambiare la Turchia dall’interno. Val la pena ricordare l’impegno del Centro per la verità, la memoria e la giustizia, oggi co-diretto da Meltem Aslan, attivista di lungo corso esperta di dialogo interculturale, e dal giornalista Murat Çelikkan, veterano della difesa dei diritti condannato nel 2017 a un anno e mezzo di prigione per il suo sostegno al quotidiano filo-curdo Özgür Gündem.
Il Centro, animato anche da uno staff di avvocati, punta a far venire a galla la verità sulle violazioni che hanno caratterizzato il passato del Paese e a rafforzare la memoria collettiva su questi fatti, oltre a sostenere le vittime nella loro ricerca della giustizia. Uno sforzo cruciale, vista la centralità del tema della riconciliazione nazionale in Turchia.
E poi ci sono tanti cittadini e cittadine che sfidano le forze dell’ordine per scendere in piazza e gridare tutto ciò che non va nella Turchia di oggi: le morti sul lavoro, la devastazione ambientale per i mega progetti edilizi, lo sfruttamento del lavoro minorile, la condizione dei rifugiati, le violenze sulle donne. Lo scorso 25 novembre, a Istanbul, almeno duemila ragazze hanno riempito piazza Taksim per rivendicare la «fine dell’impunità» nei casi di femminicidio: 347 nei primi nove mesi dell’anno. La polizia le ha bersagliate con proiettili di gomma, ma non è riuscita a zittirle.