Ha contribuito a far scendere drasticamente la diffusione della malattia in una zona povera di Mumbai. «Ma sono io – racconta suor Capra dopo cinquant’anni di missione – ad aver imparato tanto da loro»
Cinquant’anni in India accanto ai suoi lebbrosi. A curare le loro ferite, ma anche a gioire con ciascuno per la vita ritrovata. Con la stessa carica, anche oggi a 82 anni ormai compiuti. È la storia di suor Bertilla Capra, missionaria dell’Immacolata, bergamasca di Bagnatica. Ed è con lei che – in questo mese nel quale domenica 31 gennaio si torna a celebrare la Giornata mondiale dei malati di lebbra – vogliamo guardare in faccia la situazione di oggi di questa malattia a partire dall’esperienza del Vimala Dermatological Center, il presidio sanitario di Mumbai di cui suor Bertilla è molto più che la responsabile.
Era il giugno 1970 quando arrivò nell’Andhra Pradesh, la sua prima destinazione. «Avevo 32 anni, la missione l’avevo incontrata leggendo le riviste del Pime – racconta -. Una volta entrata nelle Missionarie dell’Immacolata prima di partire avevo anche seguito a Fontilles, in Spagna, un corso di specializzazione sulla cura dei lebbrosi. Ma l’impatto con la realtà dell’India e con il lebbrosario in particolare fu comunque duro».
Pochi mesi dopo sarebbe arrivata un’altra esperienza altrettanto forte: nel 1971 la guerra insanguinò il vicino Bangladesh, migliaia di profughi si riversavano verso l’India. Suor Bertilla si spostò dunque a Calcutta, dove visse quell’esperienza a fianco di Madre Teresa, in prima linea nel prestare aiuto a chi aveva perso tutto. «Ho lavorato con lei e le sue suore ai tempi dell’epidemia del colera – ricorda la missionaria dell’Immacolata -. In quei mesi a Calcutta la situazione era drammatica, non riuscivamo neppure a contare i morti. Nella mia vita non ho più visto nulla di simile. Madre Teresa era uno scricciolo di donna; ma anche in quelle situazioni così estreme era abitata da tanta luce».
Poi il ritorno a Eluru, nell’India rurale, sempre accanto ai malati di lebbra e ai loro bambini, ospitati in un ostello speciale. «Essendo nati nelle colonie dei lebbrosi – ricorda – non era prudente che rimanessero lì. Era importante che avessero l’opportunità di crescere sani, fuori da quell’ambiente». Nel 1981, infine, l’arrivo al Vimala Dermatological Center, nell’immensa periferia di Mumbai che è tuttora la sua frontiera quotidiana.
Nel frattempo, però, molte cose sulla lebbra sono cambiate: «Quando sono arrivata – spiega – in quest’area di Mumbai le suore che avevano aperto il Centro nel 1979 avevano individuato tra i 12 e i 13 mila lebbrosi nella zona. Oggi i casi sono poche centinaia». È il risultato dei grandi passi avanti compiuti dalla medicina: la lebbra ormai è una malattia che si può curare con farmaci relativamente facili da reperire, se si interviene in tempo si possono evitare le deformità nel corpo. Eppure – anche se ormai se ne parla pochissimo – la lotta alla lebbra richiede ancora un grande impegno di controllo e prevenzione.
«Continuiamo a compiere un’opera capillare di sensibilizzazione tra la popolazione che ci è stata affidata dal governo in questa periferia povera dell’immensa Mumbai – racconta suor Bertilla -. Abbiamo svolto un bel lavoro: oggi riusciamo a tenere sotto controllo la malattia. Tenete presente che la nostra è una metropoli dove la gente arriva da ogni parte dell’India; è facile che emergano casi nascosti, perché la lebbra non si manifesta subito con sintomi immediati. Si tratta di una malattia piuttosto latente: il periodo di incubazione è lungo, si comincia con piccole macchie che vanno riconosciute». Il Vimala Center oggi ospita una sessantina di malati, tra uomini e donne, e ha un piccolo ostello con una decina di bambine che in modi diversi hanno incrociato questo male nella propria famiglia. Perché prendersi cura dei malati vuol dire anche questo.
Ma che cosa servirebbe per sconfiggere definitivamente la lebbra? «Non penso si possa debellare – ci risponde la missionaria dell’Immacolata -. Va controllata ed è quanto stiamo facendo. Con il nostro personale paramedico giriamo nelle zone che il governo ci ha affidato: invitiamo la gente a capire quali sono i sintomi da verificare, spieghiamo a chi rivolgersi se hanno dubbi. Perché l’importante è curarla appena si manifesta. Solo così non avremo più quei casi conclamati in cui il corpo viene sfigurato. Non li avremo se riusciremo a controllare sul territorio la situazione».
È la chiave anche per aiutare a superare lo stigma sociale che da sempre accompagna la lebbra, come gli stessi Vangeli ci ricordano. «Sono due cose tra loro collegate – continua suor Bertilla -. Se una persona è deforme perché la malattia è andata molto avanti si prova realmente pena nel vederla. Il fatto che la gente sul pullman stia alla larga è una reazione umana. Altre volte, poi, sono i malati stessi a ritirarsi nei ghetti degli slum perché non vogliono farsi vedere in quelle condizioni. Per questo ciò che è davvero importante è far sapere alla gente che la lebbra non è una maledizione: è curabile come tutte le altre malattie. Raccontare che quando viene riconosciuta e scoperta non crea danni permanenti. Ed è una strada da continuare a percorrere con pazienza».
Adesso, però, anche l’India si trova a fronteggiare una nuova malattia come il Coronavirus. Qual è la situazione a Mumbai? «È difficile dirlo – commenta la religiosa -. Non è affatto chiaro come il Covid-19 agisca. Qui in India, poi, ti fanno vedere solo qualcosa: non c’è chiarezza sui numeri delle persone che muoiono, non sono meticolosi nel seguire le norme sul distanziamento. Nel nostro lebbrosario teniamo i malati isolati. Ma la strada appena fuori dal nostro Centro è piena di gente senza mascherine e di antisettici non se ne vedono…».
Quello che è certo è l’impatto durissimo che la crisi economica sta avendo sui più poveri in India. «Appena è scattata la chiusura – racconta la missionaria dell’Immacolata – abbiamo cercato di aiutare il più possibile la gente: i nostri lebbrosi sono tutti poveri. Abbiamo iniziato ad acquistare riso, cereali, zucchero, per distribuire dei pacchi nella cerchia di persone che conosciamo: siamo riusciti a consegnarne cinquecento. Ma in una metropoli come Mumbai è una goccia. La povertà dilaga: nelle baraccopoli oggi non so proprio come la gente riesca a tirare avanti».
Una situazione però desta particolare preoccupazione. «C’è il grosso problema delle scuole – commenta suor Bertilla -. A Mumbai sono chiuse dalla metà di marzo: qui l’anno scolastico di solito comincia a giugno, quindi più di metà se n’è già andato. Anche le bambine che stanno con noi non possono andare nelle scuole che frequentavano. In teoria ci sarebbe la didattica a distanza, ma i poveri con quali strumenti possono seguirla? Ancora una volta stanno pagando il prezzo più alto, soprattutto le bambine. E c’è il rischio di passi indietro pesanti nel loro accesso all’istruzione».
Eppure anche questo tempo difficile non deve portarci a chiuderci nella disperazione. «Il Signore ci sta dando dei messaggi – aggiunge la suora dei lebbrosi -, non dobbiamo perdere la speranza: deve essere la fede a sostenerci. Dovremmo stare più aggrappati al Signore in momenti come questi. È un tempo propizio per un esame di coscienza».
Da qualche anno, anche per risolvere alcune difficoltà insorte per il rinnovo del visto, suor Bertilla ha chiesto e ottenuto la cittadinanza indiana. Ma non è stata solo una scelta “burocratica”. «Amo la mia missione, sono soddisfatta del servizio che svolgo – spiega -. I cambiamenti che ho visto in India in tutti questi anni li ho accolti con gioia. Quando vengo in Italia mi manca la gente per cui svolgo il mio servizio: sono io che ho bisogno di loro. Mi hanno insegnato tante cose. Quando sono arrivata qui volevo capovolgere la situazione. Ma poi vedi questa gente così tranquilla che in ogni circostanza fa il suo lavoro senza allarmarsi troppo. E allora dici: sono io che ancora ho tutto da imparare».
Dopo cinquant’anni in India qual è il sogno che le manca ancora da realizzare? «Vorrei tanto per questa nostra gente una vita un po’ migliore – risponde suor Bertilla -. Quando vai in giro per questi immensi slum di Mumbai e vedi le baracche dove non c’è nemmeno l’acqua ti si stringe il cuore. Ci sarebbe ancora tanto da fare, ma non è facile. Da quando lavoriamo qui siamo riuscite a sistemare 25 famiglie: abbiamo preso loro un locale, una stanzetta decente per vivere una vita migliore. Quando riusciamo lo facciamo. Però su 22 milioni di abitanti di Mumbai un terzo si trova ancora in queste condizioni».
Un altro tipo di ricchezza, però, suor Bertilla continua a distribuirla a piene mani. «Una delle cose più belle che mi ha regalato l’India è il Diwali, la festa della luce – sorride-. Gli indù la celebrano riferendosi alla loro mitologia: la luce che vince le tenebre, per le strade e nelle case ci sono luminarie a non finire. Ma anche per noi cristiani Gesù è la luce del mondo. Ed è il messaggio che vogliamo portare a questa nostra gente».