In Iraq, sulle orme di padre Paolo Dall’Oglio

In Iraq, sulle orme di padre Paolo Dall’Oglio

Visita al monastero di Maryam al-Adhra, un luogo di dialogo e pace nel Kurdistan iracheno, dove padre Jens e suor Friederike portano avanti la spiritualità di padre Dall’Oglio nel cuore di una grande città

Lo si scorge solo all’ultimo momento e solo se lo si sta cercando: nel cuore del cuore di Sulaymaniyya, tra stradine strette e vicoli pedonali, bottegucce e sale da tè, finalmente dietro un angolo appaiono un grande edificio, non molti dissimile da quelli tutt’intorno, e un piccolo campanile. È proprio quest’ultimo – e quest’unico – che ci indica che siamo arrivati. Contrariamente alla gran parte dei monasteri che vanno “conquistati” inerpicandosi sulle montagne, quello di Deir Maryam al-Adhra (Vergine Maria) va letteralmente scovato nella parte più antica della seconda città più grande del Kurdistan iracheno: due milioni di abitanti, quasi tutti musulmani e una manciata di cristiani di diverse confessioni. Poi c’è questo monastero, nato 11 anni fa da quel che restava di una parrocchia abbandonata. Con una duplice radice: quella che lo lega a questo territorio e alla storia di un cristianesimo antichissimo di cui però restano poche tracce; e quella che lo connette all’esperienza della comunità al-Khalil e del monastero di Mar Musa in Siria che lo ha “germinato” e al suo fondatore, padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito il 29 luglio 2013 a Raqqa.

Padre Jens e suor Friederike si illuminano quando si parla di lui. Svizzero lui, tedesca lei, si sono imbattuti in Dall’Oglio mentre erano in cammino sia in senso reale che figurato. Ed è grazie a lui che oggi sono lì; il suo carisma e la sua ispirazione, la sua radicalità e la sua spiritualità hanno cambiato le loro vite.
Padre Jens era partito via terra per andare in Giappone. Arrivato in Siria, lo avevano portato nel monastero di Mar Musa. «Lo ricordo come se fosse ieri – racconta -: mentre ripartivo, padre Paolo mi salutò dicendo: “Non ti dico addio, perché domani ritornerai”. Lo trovai un po’ strano. A quel tempo non ero neppure battezzato ed ero attratto dal mondo giapponese. Poi effettivamente sono tornato più volte a Mar Musa e per periodi sempre più lunghi, finché vi ho trascorso un anno intero come volontario. A quel tempo tutto mi appariva troppo bello: il luogo, gli incontri, la possibilità di parlare ogni giorno lingue diverse con persone diverse… Vivevo una sorta di iperventilazione culturale. Per questo ho deciso che dovevo tornare in Svizzera per prendere un po’ di distanza da quel vissuto che tanto mi entusiasmava e per poter riflettere più “a freddo”. Alla fine ho deciso di chiedere di far parte della comunità».
Nel 1996, Jens riceve il Battesimo e nel 2000 entra in comunità. È stato lui, a fine 2011, ad avviare l’esperienza di Deir Maryam al-Adhra a Sulaymaniyya, su invito di monsignor Louis Sako, allora arcivescovo di Kirkuk e oggi patriarca di Babilonia dei Caldei, che aveva chiesto a padre Paolo di avviare anche lì una presenza cristiana in dialogo con l’islam nello stile di Mar Musa.

Friederike invece è arrivata qui nel 2013. Anche lei facendo un percorso partito da lontano, in tutti i sensi. Tedesca, lavorava in campo teatrale e come mimo ed era particolarmente affascinata dalla spiritualità sufi: «Nelle mie preghiere vedevo un monastero nel deserto, sentivo come una chiamata… Ho conosciuto l’esperienza di Tibhirine e ho capito che era proprio quel tipo di spiritualità che cercavo. Avevo un’immagine molto forte. E quando mi sono imbattuta in Mar Musa ho capito che quello era il mio posto».
Friederike vi si reca per la prima volta nel 2008 e vi trascorre cinque settimane. «Padre Paolo – ricorda – mi invitava a condividere alcuni momenti della comunità. Poi mi sono recata al monastero di Mar Elian, nella città di Qaryatayn, e ho sentito che quello era proprio il tipo di spiritualità che cercavo». Da lì, Friederike intraprende tutto il percorso che la porterà a diventare suora nella comunità monastica al-Khalil, che oggi conta otto religiosi e religiose con i voti perpetui, un novizio e un paio di postulanti suddivisi in quattro monasteri: Mar Musa e Mar Elian in Siria, Maryam al-Adhra in Kurdistan iracheno e San Salvatore a Cori, in provincia di Latina.

«Nel 2012 – continua suor Friederike – la presenza in Siria era diventata troppo pericolosa a causa dell’avanzata dello Stato Islamico. Padre Paolo era già partito e anch’io ho deciso di venire qui a Sulaymaniyya».
Gli anni successivi sono disseminati di tragedie: nel 2013 padre Paolo viene rapito e da allora non si hanno sue notizie; nel 2015 anche padre Jacques Mourad, rettore del monastero di Mar Elian, viene sequestrato per cinque mesi dai miliziani jihadisti, prima da solo poi con altri 150 cristiani della città di Qaryatayn; nel 2016, pure il monastero, che custodisce le reliquie di san Elia (miracolosamente salvate), viene attaccato e semidistrutto.
In tutto questo lungo periodo di violenze e sofferenze, solo il monastero di Sulaymaniyya è rimasto un luogo di relativa pace anche se le conseguenze della guerra sono arrivate sin lì; in tutto il Kurdistan iracheno, infatti, si sono riversati milioni di profughi in fuga sia dal Sud dell’Iraq che dalla Siria. E così anche il monastero di Deir Maryam al-Adhra diviene una base e un rifugio sia per i monaci non siriani della comunità – incluso padre Paolo che partirà da qui per recarsi a Raqqa nel luglio del 2013 – sia per i profughi. Dal 2014 al 2017, infatti, la comunità si adopera moltissimo per l’ospitalità e il sostegno di circa 50 famiglie cristiane (250 persone in tutto) in fuga dalla piana di Ninive, invasa dall’Isis. «Li abbiamo ospitati per tre anni in monastero, in tre case e in alcuni prefabbricati. Oggi, un terzo di loro è riuscito a fuggire all’estero, molti sono tornati a casa, mentre alcuni sono rimasti principalmente nella periferia di Erbil», spiega padre Jens.

«Ancora oggi – aggiunge suor Friederike – cerchiamo di assistere in vario modo profughi e sfollati di varie provenienze che si trovano nell’area di Sulaymaniyya. Non solo però. Il monastero attualmente è soprattutto uno spazio aperto e di dialogo con la società locale, specialmente con giovani e adulti che frequentano la biblioteca e i molti corsi che organizziamo: lingue, giornalismo, fotografia, teatro, formazione professionale, ma anche workshop e conferenze in particolare sui temi del dialogo, della pace e della convivenza».

«I cristiani – spiega padre Jens – sono una piccolissima minoranza di circa 2.300 persone su una popolazione di 2 milioni di abitanti. Sono sostanzialmente divisi in tre gruppi. Il primo è composto da 500-600 persone che vivono qui da tre generazioni, parlano curdo e si vestono come i curdi; in maggioranza sono caldei, ma ci sono anche alcuni assiri e due famiglie armene. Un secondo gruppo è composto da 400-500 persone fuggite dall’Iraq dopo le violenze del 2003; si tratta principalmente di caldei e siro-cattolici. Infine, il terzo gruppo è composto da cristiani che sono fuggiti dagli attacchi dell’Isis nel 2014; sono circa 400 e in parte hanno trovato lavoro qui e non pensano di fare ritorno alle loro terre d’origine perché hanno perso tutto. Ci sono poi diversi stranieri che sono cristiani, ma poco praticanti: una ventina circa partecipa alla Messa festiva celebrata in lingua inglese».
In città ci sono anche una parrocchia caldea, una chiesa copta, quattro gruppi di protestanti evangelici; nel quartiere del monastero c’erano anche degli ebrei e ancora oggi ci sono alcune donne di origine ebraica che hanno sposato uomini musulmani. Il cuore di Sulaymaniyya è, in piccolo, lo specchio di un Paese in cui si parla una grande varietà di lingue (curdo, arabo, neo-aramaico, turcomanno, ecc.) e dove sono presenti varie componenti etnico-religiose: musulmani sunniti e sciiti nelle varie correnti e con una radicata tradizione sufi; cristiani appartenenti alle Chiese caldea, siro-cattolica, siro-ortodossa, protestanti; ma anche zoroastriani, yazidi, manichei, kakai… Insomma, come spesso accade in Medio Oriente, anche in questo angolo di Kurdistan iracheno si condensano pezzi di storia antichi e complessi, che mostrano molte crepe e grandi fatiche, ma anche un fascino tutto particolare.
Pure la chiesa del monastero racconta una vicenda travagliata. Ispirata a un edificio simile di Sanandaj, nel Kurdistan iraniano, è stata costruita da cristiani dell’Iran nel 1862; è uno degli edifici più antichi di Suleymaniyya. Ma nel 1923-1924 è stata pesantemente bombardata dagli inglesi e molto danneggiata; tutti i registri sono stati bruciati. Negli anni Cinquanta aveva ancora tre navate e successivamente è stata allargata di alcuni metri. Adesso avrebbe bisogno di importanti restauri, come anche il chiostro e una parte dell’edificio del monastero.

Padre Jens è ben consapevole delle difficoltà, ma guarda avanti fiducioso. E ci mostra due “dettagli” che come sempre significano molto: un drappo tradizionale sull’altare realizzato da una donna che ne ha tessuto uno simile per il Papa in visita in Iraq nel marzo 2021; e una piccola immagine della Madonna, in una nicchia in cortile, un mosaico di pregevole fattura dell’artista padre Marko Ivan Rupnik. Ma in fondo, tutta la storia dei cristiani di queste terre – e anche di questo stesso monastero – è costellata di tanti piccoli e grandi miracoli.

 

Oggi il monastero è uno spazio di incontro con la società locale, grazie alla biblioteca e a vari corsi e conferenze sui temi del dialogo e della pace