Monsignor Maksim Ryabukha è il nuovo ausiliare dell’esarcato greco-cattolico di Donetsk: «Il conflitto ha unito i cristiani. I giovani? sono aperti alla diversità»
Aridità, «In guerra non c’è il tempo di pensare con quale rito preghi: per chi si trova sul campo di battaglia il sacerdote, qualunque sia la sua confessione, è il segno della presenza di Dio». Negli ultimi mesi monsignor Maksim Ryabukha l’ha visto con i suoi occhi tante volte, questo “ecumenismo del dolore”. Ma nella sua lunga esperienza a fianco dei giovani ucraini, il salesiano quarantaduenne originario di Leopoli che ha fondato il primo oratorio di Kiev ha spesso potuto constatare che «certe divisioni del passato non interessano alle nuove generazioni». Oggi, da neo vescovo ausiliare greco-cattolico dell’esarcato di Donetsk, nel cuore del Donbass martoriato dal conflitto, monsignor Ryabukha lo ribadisce con ancora più forza: «Questo è il momento di restare uniti e non cercare le divisioni».
Modi cordiali e sorriso contagioso, “don Maksim” – come continuano a chiamarlo i suoi ragazzi – dopo essere stato ordinato nella Cattedrale della Risurrezione di Kiev il 22 dicembre (quando in Oriente si celebra l’Immacolata Concezione), si è stabilito a Zaporižžja, non lontano dalla centrale nucleare occupata dall’esercito russo. La sua nuova diocesi comprende anche Luhans’k e Dnipro: «Purtroppo non mi sarà possibile raggiungere tutti i fedeli che mi sono stati affidati…», ammette. Di certo, tuttavia, non se ne starà chiuso in canonica.
Già dopo l’inizio del conflitto in Donbass, nel 2014, il salesiano aveva cominciato a organizzare campi per i ragazzi che abitavano nelle zone di combattimento. «L’obiettivo era offrire loro la possibilità di tornare a respirare un po’ di serenità, senza il rumore costante degli spari e delle esplosioni, e l’incubo che il prossimo colpo sarebbe potuto cadere nel proprio cortile di casa», racconta. «Spesso mettevamo in piedi soggiorni sul mare d’Azov, con attività ricreative e momenti educativi, tra l’altro garantendo pasti regolari, che purtroppo a casa non erano scontati».
Da Leopoli a Odessa, «città portuale cosmopolita», dalle «steppe senza confini di Dnipro» alla capitale Kiev, dove è stato cappellano al Politecnico con ventimila studenti da tutto il Paese, in vent’anni monsignor Ryabukha ha conosciuto da vicino i sogni di tantissimi giovani ucraini.
Come descriverebbe questa generazione?
«Seppure ci siano differenze a seconda delle regioni, sono ragazzi molto liberi, aperti al mondo e alla diversità. Io sono nato nel 1980 e ho conosciuto la vita sotto l’Unione Sovietica: a quel tempo eravamo obbligati a comportarci e a pensare in un certo modo, osservando regole a volte non scritte. Uscire dal nostro mondo era difficile, anche fisicamente: sembrava che tutto finisse con i confini dell’Urss. Oggi invece i giovani hanno un profondo senso di libertà, sono in grado di cercare esperienze nuove e di sfidare la realtà».
Come vivono le divisioni tra confessioni cristiane?
«Rispetto alla generazione precedente sono più aperti, sanno conoscersi e accettarsi reciprocamente. Il nostro oratorio di Kiev, ad esempio, è frequentato anche da ragazzi che appartengono alle comunità ortodosse: facciamo insieme la formazione degli animatori, viviamo momenti di preghiera e di svago e nessuno si sogna di fare pressioni su un compagno per la sua confessione. Ci sono molte amicizie che vanno oltre le differenze e sono convinto che questa serenità affondi le radici in una coscienza più profonda di sé: questa è la chiave per non avere paura della diversità».
Cos’è successo quando la guerra ha investito le vite di questi giovani?
«Per tutto il Paese il conflitto ha rappresentato una sfida di senso. Se prima ogni cosa appariva scontata, l’invasione ci ha obbligati a domandarci: chi sei tu? Qual è la tua casa? Che cosa sogni? E, soprattutto, quali sono i tuoi valori? Ciascuno ha dovuto chiedersi: che cosa è davvero importante per me? E operare delle scelte».
Come la Chiesa sta a fianco della gente?
«Naturalmente c’è un grande impegno sociale: le Caritas aiutano i profughi, chi ha perso la casa o i familiari. Ci sono centri di supporto psicologico e spazi di incontro per sottrarsi alla pressione costante. Ma c’è anche il sostegno spirituale. A Kiev da mesi continua la preghiera quotidiana via Zoom, ogni sera, prima con le famiglie e poi con i giovani. Si condividono pensieri, paure, piccole soddisfazioni quotidiane… questo ci riporta a sentirci famiglia e ci fa percepire la presenza di Dio nella nostra vita. Momenti che aiutano a non cedere alla depressione».
E come operate nei territori occupati?
«Dove c’è ancora la possibilità, i sacerdoti non rinunciano a organizzare attività: catechismo, pasti insieme, giochi, doposcuola… In molte aree, però, non ci sono più i ragazzi, o non ci si può spostare. In quelle parrocchie rimaste senza preti, invece, sono spesso i laici a guidare momenti di preghiera in comunità o nelle famiglie».
La guerra ha inasprito i rapporti ecumenici?
«L’ecumenismo non è qualcosa da inventare, ma da vivere insieme. Oggi vediamo ogni giorno persone appartenenti a diverse confessioni che operano sul campo fianco a fianco: cucinano i pasti per i soldati, danno una mano ai profughi, sono assolutamente uniti nel darsi da fare per il bene del prossimo. È questo, a mio avviso, il movimento ecumenico in atto».