La missione di padre Marco Frattini in Ciad è segnata da uno spirito di semplicità e da un forte desiderio di condivisione con la gente del posto, in particolare con i più poveri ed emarginati. Che sono diventati parte integrante della sua vita
«Ho sempre desiderato vivere una vita diversa, condividendo l’esistenza semplice delle persone povere e marginalizzate. E anche un altro modo di essere prete». Padre Marco Frattini parla quasi sottovoce sulla veranda della sua casa di Koupor, in Ciad. In lontananza si sentono il ruggito di un ippopotamo e le voci di alcuni bambini che si allontanano nell’oscurità della notte illuminata solo dalla luna. Se non fosse per la luce della veranda, sarebbe il buio assoluto. Non c’è elettricità a Koupor. E non ci sono molte altre cose. Il villaggio si trova in un’ansa del lago di Tikem, al confine con il Camerun. Nella lunga e caldissima stagione secca è difficile da raggiungere: ci vuole almeno una giornata di auto dalla capitale N’Djamena lungo strade parzialmente asfaltate e piene di buche e poi su piste accidentate. Ma quando piove va anche peggio perché rimane completamente isolato. Bisogna prendere un’esile piroga, caricarci sopra la moto, sperare di non capovolgersi, per poi proseguire su sentieri scivolosissimi, dove la caduta è sempre dietro l’angolo.
La dimensione dell’essenziale padre Marco l’ha trovata qui, in questo villaggio remoto attorniato da villaggi ancora più sperduti. Ma l’aveva già cercata e vissuta, in modo non molto dissimile, anche al di là del confine, in Camerun, dove giovane missionario si era inserito nel solco di alcuni “grandi vecchi” del Pime.
Originario di Luino, sul Lago Maggiore, classe 1975, Frattini aveva cercato di dare forma alla sua vocazione nel seminario diocesano di Venegono per poi essere orientato verso il Pime. «Avevo passato alcune settimane a Yaoundé con il mio parroco. Sentivo di voler condividere la mia vita con persone che allora mi sembravano molto diverse da me, soprattutto con i poveri, in un contesto di grande semplicità».
Ordinato sacerdote del Pime, nel 2002 torna in Camerun come missionario. La realtà a cui è inviato, tuttavia, non è quella della vasta e caotica capitale Yaoundé, ma nella regione dell’Estremo Nord del Paese, a Guidiguis e Toulum, «dove sono passati i “grandi” dell’Istituto: Zoccarato, Parietti, Cappelletti, Frigerio e molti altri. Un’eredità molto bella, ma anche una grande responsabilità – ricorda oggi padre Marco -. Nel loro solco, ho cercato di portare avanti l’attenzione specifica per i cristiani di etnia tupuri e il dialogo con i musulmani. È stata un’esperienza forte, anche se non sempre facile».
Dei tupuri padre Marco impara a fondo la lingua e la cultura. Poi però viene richiamato in Italia per studiare Teologia biblica alla Gregoriana, dopodiché passa un anno a Gerusalemme: «Un dono grandissimo!», esclama. Il suo ritorno in Africa lo porta poco distante da lì, ma in un altro Paese, il Ciad, pur rimanendo in mezzo allo stesso popolo tupuri, che le frontiere coloniali hanno diviso in due.
Questo gli permette di inserirsi più facilmente nella realtà di Tikem, dove ha avviato una prima presenza missionaria del Pime in collaborazione con la diocesi di Pala e i fidei donum di Treviso e in particolare con don Giulio Zanotto, che vi ha operato per 18 anni: «Un uomo molto accogliente, completamente dedito alla missione e con un grande amore per la Chiesa locale», lo descrive padre Marco: «Anche qui, ho cercato di approfondire la conoscenza dei tupuri e di stare accanto alle piccole comunità cristiane. Sempre di più, però, ho provato a vivere giorno per giorno, evitando di imporre uno stile o una visione precostituiti».
Da questo calarsi a fondo nella realtà sociale e culturale del posto sono nate in realtà molte iniziative, sia in campo pastorale, che educativo e sociale. Alcune sono state avviate in modo del tutto spontaneo come l’accoglienza di studenti o di ragazzi in ricerca così come di alcuni disabili. Uno di loro, in particolare, è diventato praticamente “uno di famiglia”. Padre Marco lo ha ribattezzato “Welba”, che significa “figlio di Dio”. Perché è figlio di nessuno. Abbandonato a causa della sua epilessia, vive ormai da anni nel compound della missione di Tikem, dove attualmente ci sono tre missionari del Pime e altrettante suore senegalesi.
Padre Marco nel frattempo si è trasferito a Koupor, a pochi chilometri di distanza, ma con un lago di mezzo che durante la stagione delle piogge esonda, tagliando tutte le vie di comunicazione. Un lago che divide anche due popolazioni tra di loro molto simili, ma con una lingua completamente diversa: da una parte i tupuri, dall’altra i kéra, anch’essi divisi a loro volta tra Ciad e Camerun. «È una realtà un po’ chiusa su se stessa – ci fa notare -, ci vogliono tanto tempo e pazienza. Ma in fondo anche loro hanno molta pazienza con noi!», scherza.
È una dimensione di isolamento e allo stesso tempo di relazione quella che oggi vive padre Marco. Nello spazio della missione, rimasta abbandonata per diversi anni, oggi ci sono tre suore dell’Immacolata, che si occupano del dispensario, del corso di taglio e cucito e della pastorale. Nel foyer abitano alcune ragazze che vengono da villaggi molto distanti per seguire il corso, e lì accanto vivono una giovane coppia con un bimbo piccolo, alcuni bambini in difficoltà, due sordomuti e qualche ragazzo in discernimento. È un po’ come una famiglia allargata all’africana. «È un modo per me per non essere “a parte”, per non “fare missione” e poi avere uno luogo di vita solo mio», spiega padre Marco. In effetti, nella sua semplicità, il compound è uno spazio aperto all’accoglienza e alla condivisione, nel cuore di Koupor. Tutt’intorno ci sono villaggi poverissimi, dove i cristiani sono circa 500 distribuiti in 9 comunità in cui mantengono viva la fede in una situazione di assoluta precarietà. «C’è una dimensione di libertà e profezia in questo contesto – riflette padre Marco -. Diventare cristiani qui chiede una scelta radicale. È bello condividere questo cammino. Ti rendi conto che la Parola di Dio non è qualcosa che passa accanto alle persone. È incarnazione. Ha i suoi tempi e i suoi modi. E vanno rispettati».
La radicalità è una cifra pregnante anche della spiritualità e del modo di vivere la missione di padre Marco, che sulla porta della cappellina ha appeso alcune immagini che suggeriscono un’ispirazione: Charles de Foucauld, i monaci di Tibhirine, Annalena Tonelli… «Mi indicano un percorso e ravvivano il desiderio di perseguirlo, specialmente quando si rischia di uscire di strada. Non c’è altro modo di seguire il Vangelo se non nella radicalità e nella gioia», dice.
Questo riguarda anche le relazioni con le persone, in una realtà segnata da grande arretratezza soprattutto nei settori educativo e sanitario. Anche l’impegno di padre Marco, dunque, non può prescindere da queste due emergenze, così come da quella che riguarda l’accesso all’acqua, in una regione dove piove sempre di meno o in modo estremamente irregolare. La realizzazione di un pozzo diventa così occasione di festa per due villaggi dove le donne non sono più costrette a scavare nel greto di un fiume per far emergere qualche tazza d’acqua sporca. Così come la scuola elementare di Koupor è un segno importante non solo per i circa 230 studenti, ma per tutta la comunità. Le altre, spesso realizzate con semplici rami e paglia, sono sparse nei villaggi e permettono a tanti bambini di avere almeno un’istruzione di base. Per questo, però, le famiglie devono fare grandi sacrifici per pagare gli insegnanti, che non sono stipendiati dallo Stato come dovrebbero, e lo stesso deve fare il missionario per dare un supporto non solo economico, ma anche motivazionale.
Il rischio-scoraggiamento è dietro l’angolo: un qualsiasi imprevisto o una malattia possono cambiare drasticamente il destino di una famiglia. Padre Marco però crede molto nell’educazione e ha rilanciato anche una piccola biblioteca, con oltre 60 iscritti, che serve pure da luogo di aggregazione e di formazione di tanti giovani, con piccoli eventi culturali e conferenze. Il tutto portato avanti con estrema semplicità e in uno spirito di corresponsabilità. Perché anche chi non ha nulla ha sempre qualcosa da donare, non foss’altro che un po’ di tempo per gli altri.
«Oggi non vedo più dei “poveri”, ma persone con cui ho una relazione di amicizia; non rappresentano una “categoria”, ma qualcuno che ha un nome e una storia, e che è parte della mia vita», dice padre Marco, che tutte le sere raduna attorno a sé un gruppetto di bambini con cui legge testi ad alta voce, per migliorare le loro capacità di lettura e di comprensione in un’atmosfera di impegno, ma anche di leggerezza. È la stessa atmosfera che si respira durante i momenti di preghiera nella cappellina, quando il tramonto lascia spazio all’oscurità che avvolge repentinamente tutto e tutti. «Mi rendo conto di essere sempre meno protagonista: tutto quello che si fa qui non dipende da me, dai miei sforzi e neppure dai miei difetti. In questo senso, il mio essere qui è diventata davvero condivisione».